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L'intervista

Tuccio Musumeci: «I teatri sono industrie, signori miei»

Dal lockdown al vaccino, dal teatro alla tv a San Pietro, l'attore catanese - che rivedremo in "Makari" e nel nuovo film di Crialese - dice la sua

Di Carmelita  Celi |

Ricoverarsi nella sua clinica di leggerezza fatta e fitta d’ironia forse è la forma d’assistenza più appropriata in questa strana età del malessere che, qui ed ora, non vorrebbe scadenze.  Fedele al suo personale, teatralissimo giuramento d’Ippocrate, Tuccio Musumeci, il Chaplin di Catania che fa le boccacce a Keaton (e che in realtà da famiglia di medici veri proviene, a partire dal nonno, professor De Gaetani) ha ricominciato la sua terapia ieri in scena con “Gli industriali del ficodindia” di Massimo Simili, all’anfiteatro alle Ciminiere ancora ier per il Teatro della Città. Nella nota micro-enciclopedia satirica della truffa creativa anni ‘50 ai danni della Regione Siciliana (spremere il pistacchio e trarne la “pistacchiola, potente collante siciliano”) Tuccio torna a vestire i panni di Scillichenti, suo cavallo e ragioniere di battaglia sin dal debutto al Musco, nel 1969, con la regia di Scaparro. Oggi gli sono accanto Riccardo Maria Tarci (don Nuscarà) e Olivia Spigarelli (Antonia). Ci si era lasciati con la certezza che, lockdown 1 e 2, la lotta al coronavirus avrebbe ceduto a quella al colesterolo. E adesso? Altri organi compromessi, Tuccio? «Non se ne capisce più niente! Ma è mai possibile che tutti i defunti dell’ultimo anno siano morti di coronavirus? E le 50.000 persone morte d’influenza nel 2015, allora? A parte che hanno umanizzato un virus». In che senso? «Coprifuoco dalle 22 come se quello avesse detto “Alle dieci mi nni vaiu”. Mia madre aveva 17 anni ai tempi della “spagnola” e suo padre, professore all’allora Regia Università di Catania, vedeva cortili stracolmi di persone infette ma era stata anche la Grande Guerra a portare malattie ed infezioni. Mio nonno e la sua famiglia rimasero in casa, nessuno di loro la contrasse, mia mamma mi raccontava di questo bavaglino protettivo dagli occhi al mento… Ne morirono tanti ma dopo qualche anno non se ne parlò più. Oggi il più grande sponsor del virus è la televisione, un allarme continuo». Crede anche Lei che, tv del dolore a parte, esista un piano a tavolino? «Certo! Ho l’impressione che dinanzi alla sovrappopolazione scartata l’ipotesi di una guerra abbiano optato per il virus. Ma i cunti non ci arrisuttanu ed è ecco la lotta tra le case farmaceutiche. Ma perché delle morti a causa dei vaccini si parla pochissimo? Che poi è solo un siero che stanno sperimentando su di noi. Peccato che in Italia le rivoluzioni non siano di casa ma altri paesi europei sono pronti a ribellarsi se si ricomincia con i divieti. E allora la lotta a far morire la gente di fame sarà la seconda ipotesi. Nei lager davano la minestrina…». Qualche esponente delle istituzioni tuona: tutto fuorché il ritorno della didattica a distanza a scuola. Nessuno ha ancora avuto la stessa determinazione per gli spettacoli “dal vivo”, come si dice adesso… «La cultura non interessa a nessuno!!! Piuttosto qualche caporalaccio di passaggio delle cosiddette forze dell’ordine si fa bello bloccando di mala maniera un ragazzino in bicicletta. Eppoi i teatri sono industrie, signori miei, altro che aprire un sipario! Dietro ci sono laboratori di scenografia, costumisti, macchinisti! Lo sanno o no? Del resto, io non ho mai visto un politico a teatro, non ne capiscono niente! “Con la cultura non si mangia”. Chi fu ‘du cretinu c’o dissi?». Tremonti. «In una città che ha avuto i Verga, i Brancati, mai visto un politico a teatro. Ricordo, sì, un grande assessore alla Cultura, Italia Feltri! Nel 1986 istituì un gemellaggio tra Catania e Milano per celebrare Angelo Musco, sovvenzionò gli attori ed in un cinema milanese ogni sera proiettavano un film con dibattito. Oggi chi ti ascolta in una città in cui non vedi un vigile urbano e si passa col rosso? Sono stato 4 mesi a Trapani per girare “Màkari”, è tutto un altro mondo». Addirittura. Che argomenti hanno usato per convincerLa a fare una cosa che non fosse teatro? Ipnosi? «Ha avuto un successo incredibile, consensi dovunque, persino telefonate dalla Germania. Era una cosa diversa da “Montalbano”: questo padre vivissimo e un po’ fuori dalle righe è piaciuto a molti, Savatteri ne ha detto un gran bene. Sul set, troupe fantastica, rapporto intenso con Claudio Gioè, stimo da sempre il regista, Michele Soavi. E “tamponati” tutti i giorni, non da infermieri ma da biologa e medico». Quindi ci riproviamo. «Con che cosa?». Con la tv. O con il cinema… «Veramente il film con Crialese si è “accavallato” con altri impegni». Quali spettacoli Le ispira questo momento di storia? «La gente è avvilita, guai ad appesantirla con roba greve. Le grandi richieste, anche per strada, sono “Piccolo grande varietà” e “Pipino”, ovviamente”. Ovviamente. Avendo 4 volte vent’anni e 7 di esperienza, quale doping usa per recitare accovacciato per due ore di seguito? «Il virus da me non ci viene perché non ha che cosa mangiare, carne non ne ho, solo ossa, quindi l’unico medicinale che prendo è Dibase  e così le rinforzo. M’avete visto in “Màkari”, chi sugnu siccu, uno scheletro che cammina». Linea invidiabile, altroché. «Basta mangiar di tutto ma poco. In 66 anni di tournée, poi, non sono mai andato al ristorante di sera, in Italia ho i miei posti di fiducia dove affittano case solo agli attori e in cui mangiar sano, a cena». Un piccolo “cordiale” prima del “chi è di scena”? «A me prende la noia». Perché non vede l’ora di cominciare? «No, nun viru l’ura ca finisci, come un operaio che ha il turno di notte. Poi, in scena, mi passa tutto!». E insiste. «Ah, sì! Con o senza prove, io vado a teatro, negli uffici, a trovare gli impiegati». Io a casa non ci sto, diceva l’Uomo dal fiore in bocca. «Non ci so stare! Non amo la tv e se non posso uscire, mi metto a scopare il terrazzo». E in questi giorni il da fare non manca grazie all’Etna. «Da ragazzi si pensava che, dopo morti, si andasse da San Pietro per conoscere il nostro destino. Ora, però, tutti vogliono essere cre-ma-ti e San Pietro è ridotto peggio di Catania. Cu’ tutta ‘sta ciniri ‘u cunsumanu!».  

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