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Pienone e applausi per “Turandot” che ha inaugurato la stagione del “Bellini”

Un allestimento convincente con una compagnia festeggiata da un pubblico foltissimo. Daniela Schillaci cavalca la sfida e la vince

Di Carmelita Celi |

A ciascuno il suo Novecento. Quello che fu abitato, animato, ancorato da Giacomo Puccini non è mai finito ché ha sicuramente innervato una quantità sterminata di “corpi” musicali in qualsiasi luogo deputato al pentagramma, dall’opera lirica alla canzone passando per il musical.Perciò il Teatro Bellini di Catania non poteva meglio aprire la nuova stagione d’opere e balletti – che del Secolo Breve (tutt’altro, se in musica!) intende parlare – con chi del Novecento è tra i genitori più autorevoli e più longevi. E lo fa con un capolavoro che, qui ed ora, è due volte la sua opera del futuro giacché questa edizione di “Turandot” – in scena fino al 20, direttore Eckehard Stier, regia di Alfonso Signorini, Daniela Schillaci nel title role – possiede un blasonato, inestimabile valore aggiunto: il completamento del III atto di Luciano Berio, deo gratias.

Partitura suggestiva ed articolatissima, questa, su libretto di Adami e Simoni, disorienta ed affratella, coniuga, come poche, crudeltà e delicatezza. Altro che operista all’eau de rose, Puccini. Altro che incompiuta, “Turandot”. Fu un’impresa (im)possibile dai colori fin troppo nuovi che nuovi non smettono d’essere ancor adesso, lividi, funerei eppure beffardamente indulgenti allo sberleffo come nei tre dignitari di corte. Cineserie quanto basta nella parte squisitamente strumentale, temi pentatonici che insistono sovente e, d’altro canto, cori in qualche modo parenti di un’altra Asia, quella di “Butterfly” e del coro a bocca chiusa.

Nell’allestimento di Signorini – scene di Carla Tolomeo riprese da Leila Fteita che si occupa anche della ripresa dei costumi, sontuosissimi quelli dei protagonisti, di Fausto Puglisi, light designer, Antonio Alario – la fiaba tremendissima e struggente della divina principessa di gelo rivive in una cornice sfarzosa e cromaticamente generosa. A suo modo accattivante e ricchissima, la scena è rinvigorita da un orientalismo né troppo archeologico né troppo vero, a volte affetta da una sorta di garbato horror vacui: il regista della scrittura musicale è rispettoso al limite dell’adorante il che sembra sollevarlo da qualsivoglia intervento interpretativo.

Che la platea possa essere un “altro” spazio scenico è ormai topos riconosciuto e quanto mai frequentato come, qui, nella lenta, sinistra processione dei servi del boia e della folla (“Perché tarda la luna? Faccia pallida!”) in cui delle piccole, rotonde, lucentissime “caste dive” sono portate da altrettante fluttuanti, giovanissime “caste dive” (Coro interscolastico Vincenzo Bellini diretto da Daniela Giambra).

“Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso”, annotava Puccini a proposito della difficoltà di concludere un’opera in cui, in realtà, egli avrebbe superato la sua stessa anima ma, in questa sede, il finale di Berio è un innesto sublime, è riappropriarsi di un Novecento pregnante e sommesso, stilisticamente riconoscibile e al tempo stesso “perduto” nel liquido amniotico dell’originale pucciniano. E’, quello di Berio, un tappeto sonoro in cui è l’orchestra ad aver prima ed ultima parola. In “buca”, il maestro Stier alla guida dell’Orchestra del Teatro, probabilmente più aduso ad un repertorio sinfonico, pare, a volte, precludersi il côté onirico della fiaba scegliendo un’esecuzione piuttosto tagliata con l’accetta. Il Coro risponde con esito sempre più felice alle sollecitazioni del maestro Luigi Petrozziello.E lo spettacolo va. Alla grande, in termini di talento ed incantamento.Ad intestarsi tutto ciò è sicuramente la Compagnia, ampiamente e giustamente ripagata da applausi finali e a scena aperta.

Angelo Villari-Calaf, il cui dominio della parola va di pari passo con la qualità di fraseggio, canta un “Nessun dorma” non “solo” da tenore: pur disponendo d’ampiezza di fiato ed acuti raggianti, non ne fa un “numero” calligrafico ma una necessaria “tranche” drammaturgica e perciò la canta da attore.Timbro suadente, controllo di fiati, empatia struggente tra Elisa Balbo e Liù; straordinariamente protervi, grotteschi, inquietanti, ecco i “ministri” Ping, Pang, Pong (Vincenzo Taormina, Saverio Pugliese, Blagoj Nakoski), tre magnifici, coreografici “flowers” in felicissimo odore di Lindsay Kemp. Completano il cast George Andguladze (Timur), Tiziano Rosati (un mandarino), Mario Bolognesi (Altoum).Se un mondo a parte è quello della principessa, una nota a parte meritano Turandot e la sua interprete. Daniela Schillaci (energia d’acuti e in zona grave) cavalca la sfida e la vince, senz’appello, e lo fa con tale ieratica eleganza e fermezza che il piglio perennemente insoddisfatto, inquieto, gelidamente passionale della protagonista sembra, per magia, corrispondere al suo modo d’essere artista.Pubblico foltissimo e generoso d’applausi soprattutto coinvolto da un unico “credo”: aggregazione è sinonimo di vita.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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