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L'INTERVISTA

Dentro la crisi del Catania con l’economista Rosario Faraci tra colpe del passato e modelli per il futuro

Il docente universitario: «Si può ripartire con investitori seri e pazienti, ma quello che serve veramente sono figure manageriali di rilievo: Gasparin è durato troppo poco»

Di Giovanni Finocchiaro |

Alle radici della crisi (monetaria, ma non solo) del Catania. O di quel che è stato il club rossazzurro. Il prof. Rosario Faraci, docente universitario, ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, ha dato uno sguardo ai bilanci del defunto Calcio Catania per analizzare la crisi, ma soprattutto per cercare di intravedere spiragli e possibili soluzioni proprio nei giorni seguenti alla fine del club, fra rabbia e  rimpianti, in una vacatio che dovrà  durare davvero poco. Il meno possibile. Almeno questo si spera. 

Prof. Faraci, la prima reazione a caldo dopo la cancellazione del calcio a Catania?

«Che peccato! Il cuore di tanti tifosi, sia residenti a Catania che fuori dalla Sicilia ma da sempre attaccati ai colori rossazzurri, è andato in frantumi. E giù a dare la colpa a certa classe politica, distratta e poco lungimirante, ma sempre sul pezzo quando c’è da chiacchierare per attirare consenso. E altrettante colpe a certa classe imprenditoriale locale, molto estrattiva e poco generativa per usare un eufemismo, insomma pronta solo quando c’è da prendere e non quando bisogna dare e per nulla interessata allo sviluppo del territorio. Ma questa è una reazione di pancia. In realtà il discorso è più complesso».

E perché è complesso?

«Per mille motivi. Non basta solo il cuore. Coniugare sport e business non è facile, non è un mestiere adatto a tutti, ci vogliono capitali sicuramente, ma anche idee nuove e progetti articolati in fasi temporali. E ci vogliono soprattutto magistrali interpreti di queste progettualità, cioè autentiche figure manageriali. Al Calcio Catania queste figure professionali sono mancate da sempre,perché i modelli proprietari sono stati padronali (Massimino, Gaucci, Pulvirenti) e, quando ci sono state alcune parentesi di management, ad esempio con Sergio Gasparin nel 2012-13, hanno avuto breve durata. A manager professionali spesso si preferiscono gli uomini di fiducia che magari possiedono la virtù dell’obbedienza al proprietario, ma non sempre hanno quella indipendenza di pensiero e di azione richieste ad un professionista di esperienza per discriminare fra scelte aziendali giuste e sbagliate».

Obiezione. Il modello padronale è però il modello prevalente nel calcio italiano, specie nelle serie minori.

«È vero, ma non è sempre così. Vedi il caso di Tony Tiong all’Ancona-Matelica o di Stefan Lehman alla Pistoiese, oppure il gruppo JRL Investments al Cesena. O ancora Joseph Marie Oughourlian al Padova o la proprietà del Campobasso che è del fondo Halley Holding. Non è più il tempo dei presidenti mecenati come Angelo Massimino, Costantino Rozzi, Renzino Barbera, Luigi Ferlaino o Romeo Anconetani per ricordare alcuni nomi noti. Vogliamo fare retrotopia e navigare a ritroso nel passato? Dobbiamo guardare avanti. Secondo un report della Rome Business School, il calcio italiano è un business in costante crescita che registrando a livello nazionale introiti per quasi 5 miliardi di euro (bilancio Figc) che equivale al 12 per cento del Pil del calcio a livello mondiale e dà lavoro a 40.000 persone. Gli introiti per il fisco sono superiori al miliardo di euro. Con questi numeri, ci vogliono professionalità e management anche nelle serie minori dove se imprenditori locali prendono le redini della squadra cittadina senza un progetto, alla prima difficoltà mollano il giocattolo».

Ripartendo da zero, come nel caso del Catania, ci sono modelli virtuosi che possono essere presi ad esempio?

«Esempi ce ne sono, dalle colonne di questo giornale le avete sempre raccontato con puntualità e dovizia di informazione. Ad esempio, il Venezia di Joe Tacopina fino a quando ne è stato alla guida (adesso è alla Spal) ma anche le esperienze di squadre meridionali come Bari e Palermo. Tutto dipenderà da come si scriverà il bando da parte del Comune di Catania per interloquire con la FIGC. Si può ripartire con investitori seri e pazienti, perché no stranieri dato che ormai ce ne sono tanti in Italia. Imprenditori rispettosi della città e dei tifosi, ma anche solidi da un punto di vista professionale e dotati di uno staff manageriale di tutto rispetto, che si faccia interprete del progetto societario. Ad esempio, quando occorrono più soldi, imprenditori seri non si mettono a fare la questua a livello locale, ma pensano ad un progetto e attorno a questo aggregano capitali di ventura e manager. Un po’ come sta avvenendo a Bergamo con l’Atalanta che dalla famiglia Percassi è lentamente transitata a fondi stranieri di private equity, ma senza perdere il contributo professionale degli attuali comproprietari».

Dove ha sbagliato il Calcio Catania fino al momento del fallimento?

«Ridurre tutta la triste vicenda del Calcio Catania ad una questione meramente aziendale non mi sembra il caso. Questa non è la sede adatta. Comunque, ho dato una rapida occhiata ai bilanci ufficiali della società dal 2012 al 2020. In quasi un decennio ha pesato il forte indebitamento che, all’ultimo bilancio ufficiale (2020), era rimasto sostanzialmente ai livelli del 2013 e cioè superiore a 54 milioni di euro. Ovviamente, non militando più la squadra nelle serie superiori, i ricavi di vendita sono passati da più di 4 milioni di euro a soli 715 mila euro (2020). Inevitabilmente, anche se i costi di produzione si sono abbassati nel tempo, si è passati da un utile di più di 4 milioni di euro nel 2012 ad una perdita di esercizio di oltre 8 milioni di euro all’ultimo bilancio. Una situazione del generale, tecnicamente parlando, era insostenibile».

Secondo il punto di vista suo, da docente universitario, quale sarà il nuovo asset principale del Calcio Catania?

«Quello di sempre, il suo più grande valore affettivo, ma anche aziendale: il pubblico del Massimino che è sempre accorso numeroso allo stadio anche quando la squadra ha militato nelle serie minori. Il pubblico di Catania fa numeri incredibili e porta soldi alla società; ma la tifoseria va rispettata, informata sempre e coinvolta (per la precisione si chiama engagement). Inoltre va organizzata in community, non solo social ma anche sul territorio. A quel punto, di fronte ad un progetto aziendale serio e lungimirante, state certi che anche una parte della tifoseria si accollerà, per dirla alla catanese, qualche quota sociale del nuovo Calcio Catania se la nuova proprietà si aprirà ad un azionariato locale. Pensate a quanto sarebbe bello se, alla nascita di un nipote, i nonni (tifosi) gli regalano alcune quote azionarie del nuovo Catania!».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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