La Corte di Giustizia Ue, abuso di contratti a termine nella P.A., sì al risarcimento, no alla stabilizzazione obbligatoria

Di Redazione / 07 Marzo 2018

Il lavoratore del settore pubblico vittima di un abuso consistente nella reiterazione prolungata oltre i termini di legge di contratti a termine deve essere risarcito e il responsabile deve essere sanzionato, ma non è necessario prevedere la stabilizzazione del contratto di lavoro.

Lo ha deciso la Corte di Giustizia dell’Ue, nella causa riguardante G. S., che, assunta dal Comune di Valderice con una serie consecutiva di contratti a termine, si è rivolta al Tribunale di Trapani chiedendo la stabilizzazione del rapporto di lavoro, oltre al risarcimento del danno.

Per il Tribunale di Trapani, vista l’illegittimità di una prassi di successione di contratti di lavoro a tempo determinato per oltre trentasei mesi nel settore pubblico, si tratta di stabilire quale debba essere il modo di reagire a tale tipo di abuso, posto che nel settore privato è prevista l’automatica trasformazione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato. Nel settore pubblico, invece, viene solo riconosciuto un risarcimento in termini monetari. Questo diverso trattamento tra settore pubblico e privato è spiegato dal principio costituzionale in base al quale agli impieghi negli organismi pubblici si accede solo mediante concorso. Tuttavia, la legittimità di un diverso trattamento delle due categorie di lavoratori non significa che si possano discriminare, in senso sfavorevole, i lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori privati.

Infatti, in una recente pronuncia, la Corte di cassazione a Sezioni Unite, per rendere equo il trattamento del lavoratore pubblico rispetto a quello del lavoratore privato in una situazione analoga (cioè, come detto, abuso della contrattazione a tempo determinato per un periodo di oltre tre anni), ha stabilito che il risarcimento al lavoratore del settore pubblico è composto da due parti. E cioè, in primo luogo di un’indennità forfettaria attribuita senza che il lavoratore sia chiamato a fornire alcuna prova, da quantificare fra un minimo di 2,5 mensilità e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione (identico trattamento per le due categorie di lavoratori, pubblici e privati) e, in secondo luogo, di un risarcimento per la perdita di chances favorevoli, previo assolvimento di un pesante onere probatorio a carico del lavoratore. Questi deve dimostrare che, se l’Amministrazione avesse regolarmente indetto un concorso, egli sarebbe risultato vincitore o, comunque, che talune possibilità di impiego alternative sono sfumate a causa del rapporto a termine instaurato con l’Amministrazione. Questa voce risarcitoria serve a ‘compensarè l’impossibilità di stabilizzare un contratto di lavoro a termine nel settore pubblico.

In relazione a quest’ultima voce, il Tribunale di Trapani osserva che al lavoratore si imporrebbe l’onere di fornire una prova diabolica, perché sarebbe impossibile provare (sia pure con l’ausilio di presunzioni) l’ipotetica vittoria di un eventuale concorso pubblico mai bandito. Il risarcimento della perdita di chances, uno dei due pilastri sui quali poggia la tutela approntata dalla Corte di cassazione, sarebbe quindi solo apparente e l’unica forma di tutela effettiva sarebbe rappresentata dalla prima indennità, che da sola non eliminerebbe l’esistenza di una vera e propria discriminazione tra lavoratori pubblici e lavoratori privati. Così impostato il problema, il Tribunale di Trapani chiede alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, se la normativa italiana rispetti i principii di equivalenza e di effettività stabiliti dal diritto dell’Unione. Con la sentenza odierna, la Corte rileva che gli Stati membri hanno un margine di discrezionalità nella scelta degli strumenti per contrastare l’abuso dei contratti a termine e che il diritto dell’Unione non prevede alcun obbligo di far conseguire a detto abuso la stabilizzazione del rapporto di lavoro, sia esso pubblico o privato.

La Corte osserva, inoltre, che gli Stati membri sono liberi di prevedere, per l’abuso dei contratti a termine, conseguenze diverse nel settore pubblico e nel settore privato. La Corte evidenzia che non può essere invocato a questo proposito il principio di equivalenza, il quale, nel diritto dell’Unione, significa che le persone che fanno valere dei diritti scaturenti da norme dell’Unione non devono essere sfavorite rispetto a quelle che fanno valere analoghi diritti scaturenti da norme puramente nazionali. In tal senso, quindi, non vi sono elementi per affermare che la normativa italiana violi detto principio.

La Corte ritiene che neppure il principio di effettività sia violato dalla normativa italiana, non emergendo che la stessa, come interpretata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai privati dal diritto dell’Unione: spetterà al giudice nazionale “alleggerire”, attraverso l’uso di presunzioni, l’onere della prova a carico del lavoratore in relazione alla perdita dell’opportunità di ottenere un vantaggio.
La Corte dichiara, quindi, che il diritto dell’Unione non osta alla normativa italiana in materia di risarcimento del lavoratore del settore pubblico ‘vittimà di abuso di contratti a termine, purché tale normativa sia accompagnata da un meccanismo di sanzioni effettivo e dissuasivo, ciò che il giudice nazionale dovrà verificare. A tal proposito, la Corte invita il giudice nazionale a tener conto non solo del sistema risarcitorio nei confronti del lavoratore ma anche del sistema sanzionatorio previsto nei confronti del dirigente pubblico responsabile del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato. 

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