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«Dall’accusa di sequestro di persona alla fashion week: così sono rinata». Storia di Luana e del lavoro in carcere
Luana Ganzerli ha 65 anni ed è stata in carcere, condannata a 16 anni poi ridotti a 11 , per concorso morale in sequestro, per il rapimento durato due ore di una ragazza, sempre negato. Il 23 maggio, gli outfit realizzate da lei e da altre detenute nella sartoria del carcere della Dozza hanno sfilato alla Bologna Fashion Week . Vestitini realizzati con scampoli di scarto, pochette, strass. Come è andata? «Bene, sono felice. Da quando sono uscita, tutto mi sembra meraviglioso. Ora sono pensionata e libera, ma mi sento come se fossi dentro e voglio aiutare le altre».
Il lavoro nobilita l’uomo?
Torneremo a Luana più tardi, perché è da voci come le sue che si capisce come vanno le cose in carcere. Parliamo di lavoro che, come diceva (forse) Charles Darwin, nobilita l’uomo. E anche la donna, ovviamente. Mai come in questi mesi questa parola, «lavoro», è tornata a nobilitare i discorsi di molti esponenti della destra di governo. Basti ascoltare quel che dice Andrea Delmastro Delle Vedove, il sottosegretario di Fratelli d’Italia con delega alle carceri, diventato famoso per il suo «intimo godimento» nell’immaginare che i detenuti non riescano a respirare nelle nuove auto della Penitenziaria: «Il lavoro non è un premio, ma una palestra di cittadinanza. Il lavoro dà dignità, senso del dovere e speranza. È il più potente strumento di giustizia sociale e sicurezza. Il lavoro riduce la frustrazione, previene i suicidi, restituisce motivazione e alleggerisce il carico su chi lavora ogni giorno negli istituti. È quindi un investimento in dignità e sicurezza per tutti». L’ex ministro Renato Brunetta – che con il Cnel promuove da tempo un progetto chiamato «Recidiva Zero» – spiega che un detenuto che lavora ha solo il 2% di possibilità di tornare a delinquere, contro il 70% degli altri. In scia il leghista Andrea Ostellari che da mesi insiste sullo stesso tasto.
Come si spiega questo, apparentemente improvviso, innamoramento della maggioranza per il tema del lavoro abbinato ai detenuti? Chiediamo aiuto a Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, nonché docente universitario: «È figlio di una concezione del lavoro come strumento di edificazione morale e, per quanto riguarda Ostellari, come idea produttivista, tipica del Veneto». Insomma, il lavoro come crescita spirituale, la sofferenza dell’impegno come bussola morale per chi si è perduto, la fatica come strumento per raddrizzare il legno storto dell’umanità. Ci può stare, magari sfrondando un po’ l’enfasi moralistica: lavorare responsabilizza, rende autonomi, consente di avviare quel percorso di crescita e di reinserimento che dovrebbero essere l’obiettivo finale della pena.
Sì, ma quale lavoro?
I «lavoranti» – così si chiamano i detenuti che lavorano, nel solito gergo carcerario ghettizzante – sono 21.200 mila, ovvero il 34,30 per cento. Uno su tre, dunque. Ma che lavoro fanno? Il 95 per cento di loro lavora alle dipendenze del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Solo il 5 per cento è impiegato da imprese private. E qui comincia la prima, importante, distinzione.
Lavorare dentroLa stragrande maggioranza, si diceva, lavora per il Dap. Dentro il carcere. Fanno lavori intramurari: lo «spesino» (raccolgono gli ordini per la spesa interna degli altri detenuti), lo «scopino» (lavori di pulizia), lo scrivano, l’addetto alla manutenzione. Lavori che si svolgono, con frequente turnazione, nello stesso ambiente di detenzione e che difficilmente saranno utili una volta usciti. Lavoretti che fanno guadagnare poche decine di euro. Ma c’è un’altra categoria del lavoro, poco diffuso: ci sono cooperative che affidano la produzione a detenuti che operano direttamente dal carcere. In questo caso la paga (per i detenuti, non si sa perché, si chiama «mercede») non può essere inferiore ai due terzi di quello che prenderebbero se lavorassero da liberi, nel mondo esterno.
Lavorare fuori
Poi c’è il lavoro fuori dalle mura degli istituti. L’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario consente il lavoro all’esterno, se è «compatibile con il percorso trattamentale». Formula piuttosto vaga. Spiega Anastasia: «Qui c’è una cosa scandalosa che non si ricorda quasi mai. Il lavoro all’esterno nasce come ordinaria modalità di esecuzione della pena, anche per garantire chi il lavoro ce l’aveva già, fuori. Viene disposto direttamente dal direttore del carcere, e non dal magistrato, e potrebbe essere dato anche all’inizio della pena. Invece, nella prassi, viene concesso dopo un periodo di valutazione, quasi sempre dopo aver scontato la metà della pena». Poi ci sono le misure alternative, che vengono concesse dal magistrato di sorveglianza a un certo punto dell’esecuzione: se godi della semilibertà o dell’affidamento in prova ai servizi sociali, puoi lavorare all’esterno. E dunque, quanti sono i detenuti che lavorano all’esterno? Pochissimi. Sugli oltre 60 mila, ci sono un migliaio di «semiliberi» e poco meno di 900 in «affidamento in prova ai servizi sociali». Sono solo 400 quelli che lavorano per imprese private all’interno delle carceri.
Cosa non funziona? Non funziona che non ci sono meccanismi pubblici – a parte la fantomatica Commissione regionale per il lavoro penitenziario – che mettano in contatto le imprese con i detenuti. In teoria, molte migliaia di reclusi potrebbero essere ammessi al lavoro esterno. Sì, ma dove? Sono le aziende a sottrarsi, per paura di comportamenti scorretti o criminali? Anche. Ma è anche vero che sono poche quelle che sanno della possibilità e sanno come muoversi. Quanti commessi, quanti camerieri, quanti camerieri e addetti alle manutenzioni servono in Italia? Tantissimi. C’è una legge, che si chiama Smuraglia dal nome del senatore dei Democratici di sinistra (Carlo) che la fece approvare nel 2000, che consente sgravi fiscali a chi assume un detenuto (con crediti d’imposta fino a 520 euro per persona assunta). Tra i 20 mila che lavorano, solo 2.190 sono assunti con le agevolazioni previste da questa legge. A fare il lavoro di raccordo ci sono associazioni benemerite, come Seconda Chance. Che però non è un ente pubblico, non è un’iniziativa di welfare, non ha a che fare con il Dap: è un’associazione no profit promossa dalla giornalista di La7, Flavia Filippi, che si dà da fare per contattare istituti e detenuti, aziende e imprese sul territorio.
L’esperienza delle cooperative, dai call center alle pasticcerie Le esperienze private sono molte, spiega Anastasia: «Nel femminile di Rebibbia, opera il laboratorio informatico Linkem. A Roma, se chiami l’ospedale Bambin Gesù, ti rispondono dal maschile di Rebibbia». A Milano c’è Pino Cantatore, già condannato all’ergastolo, che insieme all’allora direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, riuscì a mettere insieme un call center. Oggi con la sua cooperativa «Bee.4 Altre menti» è diventato una potenza, un’esperienza splendida che fa lavorare dentro e fuori dal carcere molti detenuti e ha 200 dipendenti. «Allora – racconta Pagano – riuscimmo a mobilitare la Tim e Tronchetti Provera. Ci diede una mano anche il direttore della Gazzetta Candido Cannavò». Poi c’è la pasticceria Giotto che lavora nel carcere Due Palazzi di Padova. Poi c’è la liuteria di Opera, con i violini realizzati con i legni delle barche dei migranti. Insomma, la buona volontà dei privati non manca. Ma il pubblico? Il Cnel, come si è detto, ci prova, e Sviluppo Lavoro Italia (ex Anpal Servizi) sta promuovendo un’iniziativa per favorire l’inserimento formativo e lavorativo di mille detenuti. Il ministrodella Giustizia Carlo Nordio si è inserito nella scia enfatica sull’importanza del lavoro, spiegando che «il lavoro, come diceva Voltaire, è l’antidoto all’ozio e al bisogno».
Da direttrice di un consorzio tessile a «scopina» nello psichiatricoCommenta Luana Ganzerli: «Hanno un bel da dire che il lavoro aiuta, il problema è se te lo danno». E torniamo dunque a lei, che ha lavorato 40 anni nella moda, come direttrice del Consorzio export tessile di Carpi. Poi quella vicenda che l’ha portata in carcere. Racconta Luana: «All’inizio ho fatto la scopina nel reparto psichiatrico. Ti danno 8-9 euro all’ora. Si lavorano ormai solo 8 ore alla settimana. A fine mese mi portavo a casa 3-400 euro. Alla Dozza su 80 lavoravano in 10. Come si sceglievano? C’era la ressa, perché molte hanno bisogno. Sceglie l’équipe degli educatori. Dimenticavo: da quella somma vanno detratte le spese di mantenimento, che ogni detenuto deve pagare allo Stato». A quanto ammontano? «Fanno 112 euro al mese. Se sei fortunato a essere scelto per lavorare, te le detraggono dalla paga. Altrimenti, appena sei libero, ti arriva la cartella esattoriale. Conosco compagne che sono uscite e si sono trovate un conto da 4 mila euro. Un bel benvenuto nel mondo libero, un bel modo per reinserirti».
L’esperienza nella sartoria della DozzaI fatti contestati a Luana risalgono al 2007. Lei è stata indagata nel 2010 e condannata nel 2017, quando è entrata in carcere. Spiega il suo avvocato, Luca Sebastiani: «Negli anni ’90, a seguito dell’ondata di sequestri, si alzarono le pene, che arrivarono a un minimo di 25 anni e a un massimo di 30. Non sono mai state abbassate». Luana: «Quei dieci anni prima della sentenza sono stati un inferno. Quando sono entrata in carcere è finito un incubo, quello di dipendere dalle decisioni degli altri, e ne è cominciato un altro. Per resistere mi sono iscritta all’università, a Storia». Naturalmente, qui non discute la colpevolezza di Ganzerli, accertata con sentenza definitiva. Si parla d’altro, di pene, di detenzione e di lavoro. Dopo l’esperienza da scopina, c’è l’occasione di tornare al suo lavoro anche dentro le celle della Dozza. La sartoria gestita dalla cooperativa «Gomito a gomito» dà lavoro a due detenute dentro il carcere e a due fuori: «Quelle dentro lavorano a cottimo. Più fai, più guadagni. Ma i problemi sono stati infiniti. La sartoria è al terzo piano: erano quattro stanze, ora ridotte a due. Se si rompe una macchina per cucire, puoi aspettare mesi prima di avere l’autorizzazione ad aggiustarla. Anche fare entrare un computer in carcere è un problema. O portare dentro della stoffa».
Ora Ganzerli è uscita per buona condotta, anche se ha ancora qualche vincolo: «Non posso uscire di casa dalle 11 alle 6, ma tanto dove devo andare? E poi non posso allontanarmi da Bologna e Modena. Ma non importa, ora voglio solo aiutare le mie compagne. Ci sono mille problemi da risolvere. Sembra una sciocchezza, ma le aziende pagano con bonifico. E molte lavoranti sono straniere, senza conto corrente. Chi glielo apre un conto in banca? Chi si fida?». Servirebbe un welfare, parolina magica fuori moda. «Servirebbero agenzie che fungano da interfaccia tra il carcere e le aziende».
La Prevost Beer, De Maria e la recidivaDon David Maria Riboldi, cappellano a Busto Arsizio, ha messo in piedi la Cooperativa Valle di Ezechiele: «Abbiamo 11 dipendenti. Siamo nati in pieno Covid e abbiamo dato lavoro a 32 persone in 4 anni e mezzo. Facciamo digitalizzazione di archivi cartacei. E la prison beeer. Ora stiamo creando la Prevost Beer. Conto di darne una lattina al Papa quanto prima». Tutto bellissimo, ma poi ci sono casi come quello di Emanuele De Maria, il detenuto evaso da Bollate che ha ucciso ancora e si tolto la vita: «Sono vicende che fanno tremare i polsi – dice don Davide – Ma sa quanti dei miei detenuti, su 32 lavoranti, hanno commesso nuovi reati? Uno solo».
Non solo lavoro
Luigi Pagano è un po’ scettico sulle statistiche della recidiva sbandierate in questi giorni dal Cnel: «C’è lavoro e lavoro. Bisogna valorizzare quello pagato, non quelli di pubblica utilità gratuiti o sottopagati, e favorire il lavoro all’esterno. Bisogna promuovere la formazione professionale, in modo che quando uno esce ha imparato un mestiere. E bisogna fare un discorso di sistema. Non basta parlare solo di lavoro, bisogna insistere con le misure alternative, creare una rete con il territorio, con le imprese». Vero, dice Anastasia, che aggiunge: «Nella mia lunga esperienza nel Lazio, con amministrazioni diverse, ho visto che la formazione professionale si fa prevalentemente con i soldi del Fondo sociale europeo. Ma sono soldi che seguono una programmazione di 7 anni. Seguono un loro percorso e rischiano di produrre solo attività simboliche. Prendiamo il grande programma di formazione del 2014-2021: ha coinvolto 300 persone. Trecento. Ma in quegli anni saranno passati 20-30 mila detenuti nelle carceri del Lazio».
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