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Sicilia, i “prigionieri” del Covid: chiusi da settimane in casa in attesa dell’Asp

Di Mario Barresi |

CATANIA – Sono i prigionieri del Covid. Contagiati, ma scampati alla pandemia. E ora chiusi a casa. Condannati in attesa di tampone. O magari con un destino ancor più beffardo, una sorta di supplizio di Tantalo, per cui la ritrovata libertà – in burocratese il cosiddetto “provvedimento di guarigione” – degli asintomatici in isolamento ritarda di settimane anche dopo l’esito negativo del test. Condannando centinaia di persone a un limbo folle: guariti per la scienza, ma non per l’Asp. In Sicilia, le storie – fra sfoghi social, mail in redazione e anche qualche denuncia sul tavolo dei magistrati – sono un patchwork di rabbia e vergogna, un enorme diario collettivo di pellichiana memoria. C’è il grido disperato di Anna G., palermitana segregata in casa dal 21 ottobre assieme al marito e al figlio (negativi), sottoposta al tampone dopo 16 giorni e ancora in attesa dell’esito. C’è il racconto di Eleonora Chicarella, positiva come il marito e il figlio, che, dopo un’estenuante odissea cominciata il 26 ottobre, fra tamponi in ritardo ed esiti smarriti, mail a raffica e telefonate senza risposta, si chiede: «Quanto dobbiamo stare a casa dimenticati da tutti?». E denuncia come nel suo caso siano state «uccise la dignità e la salute mentale delle persone».

E sotto il Vulcano c’è anche la testimonianza di Francesca A.: «Io, positiva e asintomatica e i miei 19 giorni da prigioniera in casa. Ho ricevuto la telefonata di un medico dell’Asp solo otto giorni dopo la mia positività. Le domande di rito, il tracciamento dei contatti, non tutti, e un nuovo provvedimento di isolamento domiciliare per i miei genitori. Loro negativi al primo e al secondo tampone e liberi, io a casa in attesa delle Usca. L’Asp, nel frattempo, non mi ha mai risposto né al telefono, né per email». Infine, l’autodenuncia: «Ho dovuto chiedere la raccomandazione per fare venire l’Usca, un diritto alla salute trasformato in favore…».

Dal particolare al generale, un flusso continuo di testimonianze siciliane, molto comuni – va detto, a onor del vero – con la situazione di altre regioni in affanno. Ma che nell’Isola ci sia un problema lo si capisce anche usando un approccio deduttivo. E cioè partendo dai dati complessivi. Nell’ultimo report settimanale di ministero della Salute e Istituto superiore di Sanità, infatti, la Sicilia, nonostante abbia uno degli indici Rt più bassi d’Italia, ha ancora una «classificazione complessiva del rischio» indicata come «alta». E fra i principali fattori della scelta ci sono alcuni «indicatori sulla capacità di accertamento diagnostico di indagine e di gestione dei contatti». Fra i quali la «possibilità di garantire adeguate risorse per contact tracing, isolamento e quarantena».

In particolare, l’indicatore 2.5 – sulle figure professionali dedicate agli asintomatici a casa – pone la Sicilia, insieme con Toscana e Lombardia, al quartultimo posto nazionale: meno di una persona (0,9) dedicata a questo compito ogni 10mila abitanti, la metà esatta delle risorse umane in campo nel Veneto. Peggio di noi soltanto Campania (0,7), Abruzzo e Calabria (0,6). Dalle statistiche alla realtà, lo snodo della questione sono le Usca. Acronimo sanitario (Unità speciali di continuità assistenziale) fino a qualche mese fa sconosciuto ai più e adesso oggetto di accese discussione al bar. Non a caso la Regione corre ai ripari proprio potenziando personale e mezzi di chi materialmente si occupa, fra l’altro, della gestione domiciliare degli asintomatici. A Palermo, dove si registravano i ritardi più significativi, da fonti dell’assessorato alla Salute si apprende di 332 assunzioni, fra cui 281 medici e 39 infermieri per potenziare il sistema. Che è ingolfato anche per la scelta – coraggiosa e alla lunga lungimirante – di investire sugli screening di massa: 72mila tamponi rapidi in tre giorni di drive-in nelle città dell’Isola.

Ognuno dei quasi 2mila nuovi asintomatici scoperti, infatti, entra nella trafila burocratica delle Asp, aggiungendosi a quelli tracciati con altri sistemi. A Catania, ad esempio, fino alla fine della scorsa settimana c’era una mole di 6mila positivi da gestire. Con una media d’attesa di 10 giorni per il tampone “ufficiale” e ritardi accumulati nella notifica dei provvedimenti di isolamento e di guarigione. Ora il sistema sarà velocizzato attraverso alcuni importanti correttivi. L’Ascoli-Tomaselli è stato dedicato ai tamponi molecolari per alcune categorie di asintomatici: chi è risultato positivo al test rapido e chi è in isolamento domiciliare in attesa di ulteriore tampone, convocato dopo triage telefonico. Nel fine settimana, secondo l’Asp, sono state liberate più di mille persone: 350 negative al tampone molecolare e altre 700 «i cui dati erano stati già acquisiti, ma non ancora caricati».

L’obiettivo, a regime, è «di arrivare a 1.400 tamponi al giorno, anche col supporto dei laboratori delle aziende ospedaliere catanesi, in attesa che l’Asp si doti di un proprio laboratorio a San Giorgio», annuncia Franco Luca, responsabile del dipartimento Attività territoriali. E si riorganizza anche il sistema delle 41 Usca catanesi: oltre 200 medici in campo, più quelli dello staff del commissario Covid, Pino Liberti, per una media di 10-12 tamponi al giorno per ogni unità speciale. Ma anche con un «decentramento» nei distretti sanitari della provincia: ognuno dovrà occuparsi dell’intera filiera (dall’isolamento alla guarigione) dei positivi “reclusi” in casa. Tutto in attesa che, come auspicano anche i vertici sanitari di più province, possa decollare il protocollo terapeutico del Cts regionale, in cui «il ruolo del medico di medicina generale diventa fondamentale, ancor più quando integrato dalle Usca e supportato dai Dipartimenti». Peccato che il Tar del Lazio, chiamato in causa dal sindacato dei camici bianchi, non la pensi così: ai medici di base non possono essere affidate le cure domiciliari.

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