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Maxi-processo Montante un diabolico trappolone: ecco perchè rischia di diventare un flop giudiziario

Sos dei pm dopo l’unificazione: durerà 8-10 anni.  Prescrizioni, nel “pallottoliere” c’è Schifani fra 2024 e 2025. Lo scontro fra toghe. E il Csm deus ex machina: si riparte da Catania?

Di Mario Barresi-Laura Distefano |

«Ma perché, il processo Montante è ancora aperto?». La domanda, al bancone del bar Vancheri, quasi dirimpettaio del tribunale, sorge spontanea. E l’avventore, test casuale della curiosità dei cronisti, risponde a un interrogativo con un altro interrogativo. Retorico. A cui segue, nell’ignoranza delle vicende giudiziarie, l’amarezza un po’ qualunquista dell’uomo della strada: «Io so che l’hanno condannato, a quello lì. Ma tanto carcere lui non se ne farà. Come tutti i potenti…».

Magari il finale della storia, per Antonello Montante (condannato a 8 anni in appello, poco più della metà dei 14 di pena in primo grado come capo di un associazione a delinquere dedita a corruzione e spionaggio giudiziario) non sarà questo. Eppure a Caltanissetta – capitale morale del montantismo, ombelico operativo del sistema che ha deciso le sorti della Sicilia negli ultimi tre lustri arrivando fin dentro le stanze romane dei bottoni – la disillusione non è un capriccio dell’anima. Ora, oltre a una sindrome da cono d’ombra, aleggia un pericolo concreto: se non proprio di rimuovere brandelli di storia, di far finire nel wc della giustizia anni di lavoro di pm e poliziotti, con annessi quintali di carte. E così il maxi-processo sul sistema Montante, incantevole suggestione mediatica, è di fatto un diabolico trappolone. Che rischia di diventare un maxi-flop giudiziario. Tutto scaturisce dalla decisione del tribunale di unificare due tronconi: il rito ordinario della prima tranche (quella in cui l’ex presidente di Confindustria Sicilia è stato condannato in abbreviato) e la seconda inchiesta sulla corruzione alla Regione. Ironia della sorte, nello stesso processo si ritrovano, seppur con posizioni molto diverse, l’attuale presidente della Regione, Renato Schifani, per concorso esterno in associazione a delinquere semplice e rivelazione di notizie riservate (nonostante la richiesta di rito immediato è finito nell’iter più lento), e l’ex governatore Rosario Crocetta, per associazione a delinquere e corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.

Schifani e Crocetta sono in ottima compagnia: nell’elenco dei 30 imputati ci sono, fra gli altri, l’ex direttore dell’Aisi Arturo Esposito, il caporeparto Aisi Andrea Cavacece e altri ufficiali delle forze dell’ordine (nel primo troncone); le ex assessore Linda Vancheri e Mariella Lo Bello, l’ex commissaria Irsap Maria Grazia Brandara e il re confindustriale dei rifiuti Giuseppe Catanzaro, oltre a imprenditori e all’ex direttore della Dia Arturo De Felice (nell’inchiesta-bis in cui c’è sempre Montante come capo dell’associazione).

Tutti, adesso, condividono il destino di «un processo che è stato ammazzato». Citazione dello sfogo che alcuni avvocati giurano di aver sentito dalla voce del pm Maurizio Bonaccorso, dopo l’udienza in cui è stata disposta l’unificazione. Con una matrice particolare: nessuno l’ha mai chiesta, la Procura di Caltanissetta s’è detta «fortemente contraria» così come le parti civili. A volerla, invece, è stato Francesco D’Arrigo, presidente della sezione penale del tribunale. Per «evidenti ragioni di economia processuale», considerata la «comunanza di fonti di prova» fra i due procedimenti, ma anche per prevenire il «rischio di incompatibilità e/o di giudicati contrastanti», visto che è lo stesso giudice a presiedere entrambi i processi. Dal punto di vista procedurale è corretto, tanto più che il reato associativo è assimilabile. Ma è la prospettiva che non quadra. «La riunione non determina ritardo nella definizione dei processi, bensì ne consente una più rapida trattazione», garantisce D’Arrigo nell’ordinanza. Ma sono in tanti a non essere d’accordo con questa conclusione. A partire dal giudice a latere, Santi Bologna, che ha chiesto di lasciare il processo in aperto scontro col collega. Di fronte al rifiuto del presidente, la toga nissena (impegnata intanto nella scrittura della sentenza sul depistaggio di Via D’Amelio) s’è rivolta al consiglio giudiziario con una nota definita «pesantissima» da chi ha avuto modo di leggerla. Nella quale in pratica Bologna condivide la linea dei pm, che si sono rivoltati contro l’ipotesi del maxi-processo.  Lo stesso Bonaccorso, nell’udienza dello scorso 12 settembre, è stato chiaro: «La Procura operava controcorrente perché mentre indagava era spiata e accerchiata da apparati istituzionali, Sco, Aisi e da qualche senatore della Repubblica, si è deciso di mettere un punto su quello che poteva essere definito». Ma ciò non è bastato a scongiurare l’unione di quello che in aula è stato definito un «processo spezzatino». Nell’udienza successiva un siparietto fra il pm e il presidente, quando Bonaccorso ha chiesto al tribunale di sciogliere, dopo ben quattro anni, la riserva sull’acquisizione come corpi di reato di alcune informative della guardia di finanza. La risposta di D’Arrigo è stata al vetriolo: quella riserva «continua ad esserci» e il pm non può «mettere il tribunale nelle condizioni di fermare un processo per sciogliere una riserva».

In mezzo c’è una pioggia di istanze – più che legittime – da parte delle difese, a partire da Carlo Taormina e Giuseppe Panepinto (legali di Montante), sull’«inutilizzabilità dell’attività dibattimentale fin qui espletata visto che non era presente né l’imputato né la difesa», come ricorda Panepinto, con l’ovvia necessità di risentire i testi già sfilati nel primo troncone. «Noi ci eravamo opposti alla riunione, ma davanti alle spiegazioni del presidente del Tribunale sulla carenza di organico – scandisce l’avvocato a La Sicilia – non possiamo fare altro che prendere atto della situazione e del fatto che non c’erano altre soluzioni. Il rischio prescrizione? C’è in questo come c’è in ogni processo, il problema è che questo doveva nascere unico fin dall’inizio». Gli unici avvocati esplicitamente favorevoli alla “reunion” sono quelli del colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, imputato in entrambi i processi. «Riteniamo che in presenza di un reato associativo sia del tutto naturale – commentano Mario Brancato e Giuseppe Grasso – che il processo viva in maniera organica e non si producano smembranze che possano portare a letture diverse. I fatti sono unitari ed è logico procedere unitariamente, al fine di valutare in maniera organica le accuse, soprattutto con riguardo alla associazione a delinquere». Per i legali di D’Agata «il rischio prescrizione potrebbe essere concreto per qualche capo di accusa, non per tutto, e in relazione al periodo di contestazione di alcuni reati».

Ma in Procura non la pensano così. Basandosi su alcuni conteggi molto semplici. Il rito ordinario si trascina stancamente da quasi quattro anni, lo stesso tempo in cui nel processo a Silvana Saguto s’è arrivati alla condanna d’appello. Dal 2018 a oggi è stata sentita poco più della metà dei testi dell’accusa (circa un centinaio), ma adesso si deve ricominciare daccapo. Per intenderci: soltanto per acquisire le deposizioni di Alfonso Cicero e Marco Venturi, gli ex sodali poi diventati i principali accusatori del paladino dell’antimafia, c’è voluto un anno. Dovranno essere risentiti, con il controesame di molti più avvocati di imputati e parti civili. Il tutto senza finora modificare, nonostante la richiesta dei pm che hanno invocato «due udienze a settimana» (ipotesi impraticabile: alcuni studi legali, al netto dei legittimi impedimenti, dovrebbero lavorare in pratica soltanto sul caso Montante), l’“andamento lento” che ha ha fin qui caratterizzato il processo. Previste 15 udienze in nove mesi, da ottobre scorso a giugno 2023. Con questo ritmo la stima più diffusa fra i pm è che il maxi-processo non si concluderà prima di otto-dieci anni. E nel pallottoliere dell’accusa è ben definito l’allarme prescrizione: i primi reati a rischio, fra il 2024 e il 2025, sono le rivelazioni di segreti d’ufficio (una delle quali riguarda proprio Schifani) della cosiddetta “seconda fuga di notizie”, fra dicembre 2015 e gennaio 2016, quando venne spifferato un elenco di cellulari sotto intercettazione. Poco dopo sarà il turno di alcune ipotesi di corruzione: a beneficiarne in particolare il “re dei supermercati” Massimo Romano e alcuni finanzieri. Ma sullo sfondo c’è anche il rischio per il reato associativo, contestato fino al 2018: al netto degli atti interruttivi ha un limite massimo di 15 anni. Il che, considerando anche la durata dell’appello, è già un limite borderline.

Un vicolo cieco. Dal quale non si sa come venire fuori. Nessuno si permette di sospettare un’ipotesi di consapevole insabbiamento. Ma è come se ci fosse la sensazione che, qui a Caltanissetta, nessuno voglia più assumersi la responsabilità di scrivere il finale di questo processo, qualunque esso sia. Paradossalmente, sussurra qualcuno in tribunale, il deus ex machina potrebbe essere il Csm: se, dopo il via libera in commissione, anche il plenum dovesse conferire il posto di procuratore aggiunto di Caltanissetta a Nicolò Marino (parte civile al processo contro l’ex leader di Confindustria Sicilia, in quanto vittima di dossieraggio), allora tutto il “circo” sarebbe trasferito de plano a Catania. «E lì magari si potrebbe ricominciare con più slancio», confida qualcuno.

Chissà se il neo-ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è a conoscenza dello strano caso del maxi-processo Montante. Magari qualcuno, subito dopo l’insediamento in Via Arenula, avrà pensato bene di segnalarglielo. Anche perché, a parte alcune eccezioni (come le denunce di Domani), i media nazionali ignorano sin dall’inizio le cronachette da Caltanissetta. Così com’è passata sotto silenzio un’altra clamorosa notizia: la bocciatura della relazione dell’Antimafia nazionale sul sistema Montante. Il documento inedito, di cui riveliamo in esclusiva il contenuto nell’altro articolo di queste pagine, è l’unico non approvato nel quinquennio della pur contestata presidenza di Nicola Morra. «C’è una cappa di piombo, un muro di silenzio che avvolge una trama di relazioni tossiche, una mafia trasparente», ha commentato a caldo l’ex senatore grillino. A votare contro il dossier (che comunque è rimasto fra gli allegati della relazione finale della commissione), nella tormentata seduta notturna dello scorso 13 settembre a Palazzo San Macuto, anche due componenti siciliani della commissione. Piera Aiello, ex 5stelle non rieletta da candidata di Unione popolare, ha definito la relazione «sbilanciata» perché «priva di contraddittorio». Il collega di commissione Mario Giarrusso, più a freddo, aggiorna il giudizio negativo con La Sicilia: «Non è stata una bocciatura sul contenuto ma sul metodo. La commissione non ci ha lavorato, quindi non ritenendolo un lavoro della commissione abbiamo votato no. Ci è sembrata un’offesa alla commissione come organo istituzionale». Così l’ex senatore grillino, pure lui non rieletto nelle liste di Italexit. Aiello, prima testimone di giustizia a entrare in parlamento e molto vicina al mondo delle agende rosse di Salvatore Borsellino, e Giarrusso, icona dell’antimafia più genuinamente manettara del primo M5S, fra le anime della fondazione Caponnetto di cui Beppe Lumia (più volte citato nella relazione bocciata), assieme al presidente onorario Giuseppe Antoci, è stato uno dei protagonisti. Due facce speculari di un’antimafia che non digerisce l’antimafia di Morra (a sua volta in ottimi rapporti con Claudio Fava, ex presidente dell’omologa commissione regionale), protagonista di più blitz a Caltanissetta per denunciare «il potere tossico di un sistema che non ha esclusivamente portata siciliana», additando anche «i rapporti, mai approfonditi a dovere, di Montante con alcuni magistrati». Ma ormai Morra è fuori gioco. Impallinato sulla relazione grazie alle “manine” di un sistema che si autodifende? «È una spiegazione plausibile, come potrebbero essercene altre», si limita a sillabare al telefono ieri pomeriggio.

Del resto, il destino di tanti personaggi illustri finiti nelle prossimità montantiane è curioso. L’imputato Schifani, pur continuando a ripetere di non aver mai conosciuto l’ex paladino antimafia, è diventato presidente della Regione, nei cui palazzi – fra dirigenti, imprenditori e politicanti vari – continuano a muoversi tanti Antonello-boys “in sonno”. E avrà come interlocutore istituzionale l’erede già designato da Montante in alcune intercettazioni dell’inchiesta: Alessandro Albanese, incontrastato presidente di Confindustria Sicilia. Nel frattempo anche alcuni magistrati hanno fatto carriera: Maurizio de Lucia (indagato e poi archiviato, con tante scuse, a Perugia come presunta talpa nella Dna) è da poco diventato procuratore capo di Palermo. Nel cui tribunale, nell’altro posto al sole di procuratrice generale, ha trovato Lia Sava, mai sfiorata da alcuna indagine, ma che da pg di Caltanissetta si tirò fuori dal processo avvalendosi della facoltà prevista dall’articolo 52 del Codice di procedura penale, che prevede l’astensione «quando esistono gravi ragioni di convenienza». Il suo nome era nella lista dell’aggressiva difesa di Montante, fra i magistrati che avrebbero avuto «rapporti di amicizia e frequentazione» con l’imputato. Così come il nome del predecessore, Roberto Scarpinato, era nell’elenco di toghe sulle quali c’è stata una duplice archiviazione (della Procura di Catania, in un fascicolo senza indagati né ipotesi di reati, e del Csm), oltre che l’“assoluzione” dello stesso Montante interrogato dai pm: «Mai ricevuto richieste per intervenire a suo favore per la candidatura di pg  a Palermo». Chiarito anche il giallo della piantina: «Ho saputo per caso che la sua famiglia aveva una casa in vendita al centro – ricorda Montante – e, come privato, mi sono anche interessato per l’acquisto, ma dopo aver visto la piantina non se ne fece nulla perché non era di mio interesse». Oggi Scarpinato, dismessa la toga per raggiunti limiti d’età, è l’ariete antimafia del M5S da senatore neo-eletto. Ha già sfidato in aula la premier Giorgia Meloni e magari gli capiterà presto di scontrarsi anche con il ministro dell’Interno, il tecnico d’area leghista Matteo Piantedosi. Citato in uno sperduto allegato del processo Montante: la copia di un articolo del Fatto Quotidiano del 20 aprile 2016 in cui si racconta di una cena, al circolo della Marina sul Lungotevere romano, fra vertici di forze dell’ordine e dei servizi segreti. Intercettazioni tratte dall’inchiesta sulla “cricca del petrolio” dei pm di Potenza, in cui nel consesso spunta «Matteo», allora brillante prefetto e numero due della polizia. A quel tavolo, il 3 giugno 2015, altri due convitati siciliani: l’ex senatrice Anna Finocchiaro e Ivan Lo Bello, storico “gemello diverso” di Montante. Nessun rilievo penale, tanto più che l’inchiesta potentina s’è del tutto sgonfiata, né legami col processo di Caltanissetta. Eppure è l’ennesima casuale dimostrazione di un assunto: Montante, comunque, è un portafortuna. Per chiunque, anche indirettamente, abbia avuto a che fare con lui. E conferma la tesi di una vecchia toga, ormai a riposo, protagonista di molti fatti nisseni: «Se l’avvocato Nino Caleca, all’epoca, avesse convinto il suo assistito a non scegliere il rito abbreviato, oggi Montante sarebbe un cittadino incensurato, appena infastidito da un processo-lumaca che non interessa più a nessuno». E magari il ministro avrebbe potuto farlo pure lui, il capo di un sistema che sembra non morire mai.   COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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