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Il nome delle cose

Il termine «femminicidio» è l’effetto delle battaglie per il riconoscimento dei diritti delle donne in un mondo condizionato da cultura, prassi e violenze dell’uomo.

Di Francesco Puleio |

Il piccolo Tommasino – un anno e mezzo – trotterella incerto a piedi scalzi per la casa, stringendo in mano per le orecchie un coniglietto di peluche. È il suo amico e si chiama Pimpi: il nome gliel’ha messo lui. A 18 mesi, Tommaso senza volerlo ha già imparato che dare il nome alle cose vuol dire creare, vuol dire trarre dall’indistinto qualcosa di concreto, di individuabile, un’esperienza che ci appartiene, nel bene o nel male: un po’ come quando si scopre una stella ignota e la si nomina; se non lo si facesse, nessuno potrebbe ritrovarla, tutti dovrebbero cercarla di nuovo e, una volta ritrovata ma non nominata, ci sfuggirebbe ancora.La stessa cosa avviene normalmente nel mondo del diritto, dove nominare un concetto, definirlo, vuol dire imparare a conoscerlo, a disciplinarlo e talvolta a contrastarlo.

Così è avvenuto, ad esempio, per il termine “mafia”, che dopo essersi aggirato per un paio di secoli tra letteratura e sociologia, film di genere e commissioni parlamentari, è entrato nel Codice penale nel 1982, con l’articolo 416 bis, che punisce coloro che si avvalgono della forza di intimidazione e dell’assoggettamento omertoso che deriva dall’appartenenza al sodalizio per commettere delitti, per acquisire il controllo di attività economiche, appalti e servizi pubblici o per influire sul libero esercizio del voto.

Prima di allora, la mafia non esisteva per il diritto e, se non esisteva, come si poteva combatterla?Poi, ci sono esperienze estreme per le quali, letteralmente, manca o e difficile trovare la parola. La nostra lingua contiene il termine orfano, la dolorosa esperienza di chi perde un genitore, ma non conosce un termine specifico che definisca chi vive il dramma atroce della scomparsa di un figlio: perché non esistono parole adeguate e, al tempo stesso, l’uso di parole correnti avrebbe l’effetto di ricondurre quella esperienza disumana nel campo dell’umano: in qualche modo, di normalizzarla. Così, non sorprende che, quando non ci si rassegna a tacere di fronte a cose nuove che non hanno nome, oppure di fronte a cose di cui si percepisce per la prima volta un carattere che, forse, hanno sempre avuto e che occorre ora mettere in evidenza, si avverta l’esigenza di separare, individuare, sottolineare con parole nuove. Di definire, avrebbero detto nell’antica Grecia.

Ora, da tempi relativamente recenti – una ventina d’anni o poco più – si è diffuso, ma non è entrato nella terminologia della legge, il termine «femminicidio». È l’effetto delle battaglie per il riconoscimento dei diritti delle donne in un mondo condizionato da cultura, prassi e violenze dell’uomo.In precedenza, le uccisioni di donne da parte di uomini sono state fenomeni quotidiani, non diversamente da oggi. Erano ricomprese nel concetto generale di omicidio anche quando erano conseguenze di relazioni affettive e sessuali degenerate e non sembra che negli anni e secoli precedenti si sia mai dubitato che la norma del Codice penale che punisce l’omicidio si applicasse indistintamente in tutti i casi di morte provocata a uomini e donne. Ecco perché taluno ne contesta l’uso, ritenendo che parlare di femminicidio sia un modo sbagliato di distinguere e magari aggravare un unico orrendo reato, l’uccisione di una persona, né si parla di inserire specificamente il termine nel nostro codice.

Non è così. I neologismi questo sono; sono parole che nascono e, se non sono solo mode, ma corrispondono a fatti nuovi e inusitati o a fatti antichi visti con occhi nuovi, la loro nascita è benvenuta: perché le parole, quando sono cariche di significato e dunque di forza, nascondono in sé un potere diverso e superiore rispetto a quello di trasmettere semplicemente un messaggio. Hanno il potere di produrre trasformazioni che possono essere lo strumento per modificare il mondo.Perché, allora, l’esigenza d’una parola nuova anche nelle parole della legge? Perché tra le tante riforme-annuncio non sarebbe inutile anche una riforma-manifesto: introdurre il delitto di femminicidio come ipotesi a sé stante. Precisamente per questo, per distinguere e dare risalto all’uccisione della donna «in quanto donna», cioè in quanto appartenente al genere femminile. Quando una donna in quanto donna è uccisa, in un certo senso tutte le donne avvertono d’essere vittime della medesima violenza.

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