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Valentina Milluzzo, le accuse dei genitori riaprono la disputa sull’obiezione di coscienza: «L’aborto l’avrebbe salvata»

Di Redazione |

CATANIA – Al giorno d’oggi si può ancor morire in un ospedale siciliano a causa di una «obiezione di coscienza» dei medici? E’ quello che si stanno chiedendo diversi media internazionali e nazionali dopo l’inizio del processo a sette medici del reparto di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale Cannizzaro per la morte di Valentina Milluzzo, la 32enne alla 19ª settimana di gravidanza deceduta il 16 ottobre 2016 dopo avere perso i due gemelli che aspettava in seguito a una fecondazione assistita.

Imputati sono il primario del reparto, Paolo Scollo, perché «in posizione di garanzia e con obblighi di controllo e vigilanza»; i medici Silvana Campione, Giuseppe Maria Alberto Calvo, Alessandra Coffaro, Andrea Benedetto Di Stefano e Vincenzo Filippello, «in servizio nel reparto e in sala parto, avvicendatisi nei turni di guardia»; e l’anestesista Francesco Paolo Cavallaro, «intervenuto in sala parto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2016».

Dopo la prima udienza, il 17 ottobre scorso, è stato il 29 ottobre – con l’audizione delle parti offese – che sono tornati ad accendersi i riflettori sulla presunta obiezione di coscienza dei medici presenti quel giorno in ospedale. Una vicenda che persino il Financial Times ha deciso di approfondire con un servizio. I genitori di Valentina, Salvatore e Giusi Milluzzo, direttore di banca in pensione lui, casalinga lei – secondo quanto riportato invece dal Corriere della Sera – ribadiscono che quei medici non la fecero abortire, sebbene fosse in corso una grave setticemia che aveva già ucciso uno dei due feti. «Non la liberarono dalle creature per le quali non c’era più nulla da fare perché dissero di essere tutti obiettori di coscienza», hanno detto in aula.

Secondo la mamma, oggi Valentina «sarebbe viva. L’ha detto pure un cardinale che in quel caso bisognava occuparsi della madre e non dei piccoli». Mentre il padre ha raccontato: «Siamo vittime di ignoranza e negligenza. Ricordo ancora l’invocazione accorata: “Mamma sto morendo”. E ricordo le parole del medico di turno: “Fino a quando sento battere i cuoricini non posso intervenire perché sono obiettore”…».

In realtà nel processo non si contesta per niente il fatto che i medici siano obiettori di coscienza. E anche una ispezione del ministero della Sanità ha escluso una correlazione tra la morte di Valentina e l’obiezione dei medici. Ma le reiterate accuse dei genitori hanno riportato la vicenda su questi binari.

E una circostanza svelata dal padre aggiunge anche un alone di mistero alla già tragica scomparsa di Valentina. Durante le indagini sarebbe infatti sparito un tampone che avrebbe potuto utile alle indagini. Un retroscena inquietante. «Hanno nascosto i risultati di un esame, il cosiddetto tampone, fatto due giorni prima della morte. Prova che l’infezione era individuata, che bisognava intervenire. Sparito. Poi ritrovato perché un’anima buona l’ha inviato in modo anonimo al nostro avvocato. Frattanto era comparso un nuovo esame fatto secondo il referto alle 14 del 15 ottobre, il giorno prima del decesso, con esito perfetto, prova che la sepsi non ci fosse. Ma a quell’ora eravamo con nostra figlia e nessuno fece il prelievo. Una bugia».

Il primario del reparto Paolo Scollo, a lungo presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia, ha sempre negato che il medico in sala parto si sia rifiutato di praticare l’interruzione di gravidanza e ha più volte specificato: «Il fatto che siamo obiettori non significa niente. Abbiamo un collega esterno che chiamiamo per le interruzioni di gravidanza. E non esiste lista d’attesa: zero giorni. Tutto documentato. Valentina purtroppo è deceduta per una sepsi che l’ha consumata in 12 ore e che non siamo riusciti a bloccare, come dimostreremo in aula». 

Secondo Scollo, «l’affermazione di un genitore, pur comprensibilissimo nella sua angoscia per una figlia che muore in gravidanza, non può trasferire il processo dall’aula alle pagine dei giornali». E quindi sarà il processo a stabilire se – come sostiene la Procura – c’ stata da parte dei medici «colpa professionale» per «imprudenza, negligenza ed imperizia». In particolare «nella mancata attuazione di una terapia antibiotica adeguata» sia il 14 e il 15 ottobre, nel «mancato tempestivo riconoscimento della sepsi in atto», nella «mancata raccolta raccolta di campioni per esami microbiologici», nella «mancata tempestiva rimozione della fonte dell’infezione: i feti e le placente» e la «mancata somministrazione di emazie durante l’intervento». 

Ma resta sullo sfondo una regione in cui è sì possibile interrompere la gravidanza ma in un percorso non privo di ostacoli. In Sicilia i medici obiettori di coscienza sono l’87,6%. I dati, forniti dal ministero della Salute ed aggiornati allo scorso aprile, collocano l’Isola al quarto posto in Italia dopo Molise (93,3%), Trentino-Alto Adige (92,9%) e Basilicata (90,2%): regioni più piccole della nostra, che in alcuni ospedali fa registrare il 100% di medici obiettori di coscienza. 

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