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Cucinare con il fuoco per ritrovare l’essenza del cibo

Di Carmen Greco |

Buccheri (Siracusa) – Cucinare solo con il fuoco. Legna che arde e braci che fumano, cotture lunghe e antiche, tegole al posto delle piastre ad induzione, foglie di fico usate come “cartocci”, maialini da latte allo spiedo, teste di bovino messe a bollire nelle “quadare”. Frutta, formaggi, pane, tutto sulle griglie, in un’atmosfera affumicata che riporta alla campagna, al sapore della natura. Fuoco, braci, lentezza. Nell’attesa di compiere il rito collettivo più aggregante da sempre: mangiare insieme.

Profumo di pineta e carne arrostita, nel Bosco della Contessa, a Buccheri, per il “Fuoco food festival”, la manifestazione distribuita su tre comuni siracusani (Palazzolo Acreide, Buccheri e Sortino) che nel weekend appena trascorso ha messo insieme trenta cuochi provenienti da tutt’Italia chiamati a cimentarsi solo con il fuoco. Hanno cucinato senza elettricità, senza piani cottura, frullatori, abbattitori, sifoni, in pratica tutto ciò che rende oggi una cucina ipertecnologica, ma solo con il fuoco vivo e, soprattutto, con una grande materia prima, i prodotti degli Iblei e le altre eccellenze dell’agroalimentare di casa nostra. Una formula che ha richiamato nel bosco alle porte di Buccheri, tanti appassionati incuriositi da questo “happening” ideato da Daniele Miccione, a metà strada tra la classica manifestazione enogastronomica e l’aspetto rurale, quasi essenziale, del cibo.

«Non è stato per niente semplice – confessa Marco Baglieri, chef del Crocifisso a Noto – in cucina con le temperature controllate facciamo un po’ tutti i fenomeni, qui ci siamo adattati grazie agli organizzatori che, mettendoci a disposizione anche qualcosa in meno rispetto al dovuto, ci hanno riportato ancora di più ai tempi antichi, però è divertente. Ho imparato tantissimo a proposito di temperature e cotture. Del resto, anche un piatto gourmet viene da una fiamma viva e con la brace si può fare tutto, ho visto dei miei colleghi realizzare delle cose molto interessanti».

Tra queste, un mini hamburger che si fa beffe dei panini di fastfoodiana tradizione. Al posto della maionese, una crema di caciocavallo cinisaro, al posto del ketchup, una salsa di estratto di pomodoro siciliano, in mezzo, un piccolo burger di vacca cinisara su un panino di pane di grano duro delle varietà Tumminia e Russello. Vito e Giuseppe Biundo con lo chef Gianvito Gaglio, di Cinisi, lo servono con la loro birra artigianale fatta anch’essa con l’utilizzo di materie prime locali. «Parente di Mcdonald? Ma neanche cugino di terzo grado! – ride Vito – è lontanissimo anni luce, qui c’è genuinità e qualità».

Una genuinità che, in qualche modo, si percepisce come “figlia” del mancato (per fortuna) sviluppo di tante aree della Sicilia che oggi possono scommettersi in questa sorta di “vantaggio” dell’arretratezza.

«Per la Sicilia è un punto di forza, assolutamente – afferma convinta Bonetta dell’Oglio, chef itinerante, conduttrice di un laboratorio “sul campo” con il suo “Lesso e maionese nel pane di Tumminia e Maiorca” e le “Ricottine affumicate al sommacco” – soprattutto rispetto ad altre regioni d’Italia, per non parlare di Paesi d’Europa e del mondo dove, specialmente nelle grandi città, i bambini non sanno nemmeno che il latte viene dalle mucche. Il nostro obiettivo è anche quello di far capire, innanzitutto alle nuove generazioni, che tutto quello che mangiamo viene dalle terra o dal mare e, quindi, questo rapporto natura-cibo deve ritrovare un equilibrio possibile. Per noi l’arretratezza, è stata una fortuna, non abbiamo perso, come è avvenuto forse altrove, il nostro patrimonio di biodiversità. Potrei dire che, da un certo punto di vista, oggi ci troviamo avanti. Il problema è che facciamo fatica a comunicarlo, però ce la mettiamo tutta. Le persone sono interessatissime, il punto è che devono pensarci quando si trovano a riempire i carrelli dei supermercati per fare la spesa. Oggi la gente in Italia è disposta ad investire pochissimo in qualità. Dobbiamo entrare nell’ottica di spendere di più, ma consumando di meno e scegliere cose di altissima qualità. Una buona carne, delle buone uova, dei buoni prodotti agricoli».

Quanto possa essere “moderna” la tradizione lo sa bene. Saro Pennisi, per sua stessa definizione “umile macellaio da 50 anni a Linguaglossa” che al “Fuoco food festival” ha distribuito panini con le “frittole” (le parti meno nobili del maiale orecchie, zampe, rognoni, lingua, coda, etc, bollite ndr). Si è divertito ad offrirli soprattutto alle donne, a prima vista riluttanti, «invece la mia soddisfazione – ammette divertito – è stata vedere che sono ritornate tutte per il bis. Questo tipo di manifestazioni servono a far ritrovare anche il gusto per queste cose, ma purtroppo attirano solo una fascia di persone che sa già quel che mangia, che vuole ritrovare i sapori di una volta. Oggi tutti siamo imbambolati da quello che si vede in tv. La Nutella è buona? Tutti a comprare la Nutella. Io ogni venerdì faccio le frittole nella mia macelleria e tanta gente le compra, è un prodotto sano, genuino, dolcissimo, ma certo non lo trovi al supermercato, né te lo propone la pubblicità».

«Mi rendo conto – gli fa eco Giuseppe Grasso, allevatore “etico” e agricoltore – che la gente, se trova un interlocutore valido, ha voglia di conoscere. Vuole sapere come vivono questi animali, cosa mangiano, come vengono trattati. Una testa di maiale appesa a cuocere sulla brace è come se fosse un campanello, una “sveglia” su questi temi, temi ai quali tantissime persone sono interessate. I miei animali vivono secondo le regole della natura e quello che la nostra floridissima terra ci offre, pascoli verdissimi in primavera, stoppie in estate, la Sicilia è veramente una terra in cui gli animali possono vivere tutto l’anno fuori, in libertà. Nella mia azienda ho visto americani “commossi” all’assaggio del latte appena munto, si stupivano che fosse caldo».

La postazione “simbolo” del “Fuoco food festival” è stata sicuramente quella di Giuseppe Zen, cuoco di “Mangiari di strada” a Milano, una serie di teste, testicoli e altre parti meno “nobili” del maiale, appesi a cuocere su un ideale cornice sospesa sulle braci. Una sorta di installazione (creata con la complicità di Giuseppe Grasso) che ha ben rappresentato il senso dell’operazione di “sottrazione” in cucina alla base della filosofia del festival. Solo fuoco e materia prima, senza altre “sovrastrutture” culinarie.

«E’ venuta fuori senza saperlo – filosofeggia Zen – non trovate che abbia un che di metafisico? Da quando l’abbiamo messa su, alle cinque di mattina, ha perso, via via, l’aspetto più hard che aveva all’inizio. Con il passare delle ore, levigata dal calore, ha cambiato colore, mi ricorda Botero o Guttuso. Questa è la più bella manifestazione inerente il food, la più originale, arcaica, ancestrale, alla quale io abbia partecipato. C’è un’intellettualità declinata sul cibo, che ormai era persa, quella per cui è lui, e solo lui, il protagonista, senza tutti gli orpelli che ci stanno dietro, esattamente la mia idea di cucina. L’evoluzione a volte sposa la tradizione nel senso goethieano del termine, come una quercia gigantesca le cui radici sprofondano fino al centro della terra. Eppure l’albero tutti gli anni mette foglie e rami nuovi. Molti cuochi, negli anni, si sono molto concentrati sulla tecnica tralasciando la ricerca sulla materia. Qui è solo materia e cultura univoca. Il fuoco e basta».

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