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Il batterio racconta una nuova storia

Di Redazione |

Tracce di un batterio, trovato inaspettatamente nelle ossa di individui vissuti 2000 anni fa e poi nel corso dei secoli fino al 1800, modifica l’idea che la febbre quintana, una malattia riscontrata per la prima volta in grandi numeri tra i soldati nelle trincee solamente durante la prima guerra mondiale (all’epoca fece mezzo milione di vittime), sia legata agli eserciti. Non solo: una simile scoperta – che può servire a capire come, quando e perché le malattie possono mutare nei secoli, aiutando a curarle più efficacemente oggi – aiuta a comprendere lo status sociale ed economico, evidentemente non elevato, della comunità degli antichi cristiani della Siracusa tardo romana dei primi secoli dopo Cristo sepolti nelle catacombe di Santa Lucia. Coautore di questa importante scoperta – realizzata con un team di epidemiologi e paleopatologi di Marsiglia e resa possibile grazie a un triennio di scavi condotti in collaborazione con l’Ispettorato per le Catacombe della Sicilia Orientale della Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra – è il siciliano Davide Tanasi, professore associato al dipartimento di Storia della University of South Florida.

Argomenti oggi più che mai di attualità, nel tempo della pandemia da Covid-19, anche se nel caso degli studi condotti dal prof. Tanasi si parla di un batterio e non di un virus. Ma i principi della ricerca scientifica sono gli stessi: «L’epidemia che sto studiando – spiega il prof. Tanasi – ha anch’essa a che fare con l’igiene personale e la distanza sociale, visto che il vettore della febbre quintana o delle trincee è il pidocchio. Tanto è vero che si tratta di una patologia identificata durante la prima guerra mondiale, primo evento in cui una quantità incredibile di uomini si sono trovati in condizioni igienico-sanitarie disastrose confinati in spazi ristrettissimi come le trincee. Questo ha determinato l’assunto che fosse una malattia con una prevalenza negli eserciti, visto che non si conoscevano casi di epidemie di febbre quintana al di fuori dei campi di battaglia». Ma una volta compreso che le condizioni igienico sanitarie giocavano una parte importante nella diffusione dell’epidemia, si sono fatti degli studi, in particolare a Tokio e Marsiglia, «in cui è stata testata la popolazione di senzatetto di queste città, scoprendo che molti avevano gli anticorpi generati in risposta alla febbre quintana».

Il prof. Tanasi, con i colleghi epidemiologi e paleopatologi francesi, dal 2018 hanno analizzato il Dna di 145 individui da contesti militari e non, in Italia e Francia, vissuti tra il I secolo d.C. e il 1800, sfatando con i loro risultati, pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale PLos One, il mito della prevalenza della malattia esclusivamente in contesto militare. «Questo studio – spiega l’archeologo – ha chiaramente delle implicazioni batteriologiche, perché analizzando il batterio nel corso dei secoli è possibile vedere se, quando e perché si è modificato diventando più o meno aggressivo. Si cerca insomma di stabilire quali sono state le condizioni che in un determinato luogo e contesto hanno determinato l’eventuale mutazione per impedire che il batterio in futuro muti ancora».

«Il caso più antico in assoluto mai documentato di febbre quintana – spiega Davide Tanasi – è stato identificato oggi su individui sepolti nel cimitero tardo antico delle catacombe di Santa Lucia a Siracusa, dove ho condotto un triennio di scavi (2013-2015) in collaborazione con l’Ispettorato per le Catacombe della Sicilia Orientale della Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra».

Su queste ossa lo studioso siciliano sta eseguendo analisi agli isotopi stabili per determinare anche il regime dietario degli individui e scoprire se c’è un rapporto tra la nutrizione scarsa e l’insorgenza di certe patologie. «Si tratta – spiega – di uno studio complessivo: i primi dati che ho ottenuto sono stati quelli sulla febbre quintana, l’esempio più antico di questa patologia mai identificato». Ma l’evidenza della malattia diventa mezzo per comprendere «la condizione di vita ed economica della comunità cristiana di Siracusa. Il fatto che questi individui fossero malnutriti e avessero anche la febbre quintana indica infatti che non se la passavano bene. Nelle catacombe di Santa Lucia, dove gli individui sono sepolti per gruppi familiari, c’è ovviamente una omogeneità per quanto riguarda il regime dietario e la prevalenza dei dati – ancora in attesa di pubblicazione – indica che queste persone erano quasi vegetariane, nel senso che non avevano grande accesso alla carne. L’altro dato interessante è che non è documentato consumo di pesce pur essendo Siracusa una città affacciata sul mare: dato peraltro comune in generale a buona parte della popolazione, visto che il pesce era un alimento di lusso stante il prezzo alto per la difficoltà e il pericolo di pescarlo e la rarità del sale per conservarlo da una parte, e considerato che per trovarne tracce chimiche nelle ossa occorre consumarne con regolarità». Non per nulla, tutti gli studi realizzati finora «sull’alimentazione greca e romana dimostrano come il grano e l’orzo fossero alla base dell’alimentazione e la carne e il pesce fossero una rarità». Lo studio del regime dietario, a partire dalle origini della dieta mediterranea (inventata in epoca moderna) «è importante – sottolinea il prof. Tanasi – perché, combinato allo studio delle malattie, permette di stabilire se un determinato regime espone o protegge dall’insorgenza di specifiche malattie. Insomma, l’archeologia non è soltanto lo studio del passato e dei morti, ma può contribuire a migliorare il presente scoprendo una correlazione tra uno specifico regime dietario e lo stato di salute generale».

A fornire i reperti su cui realizzare le ricerche (in parte per quelli sulla febbre quintana, in toto per quelli sul regime dietario dei cristiani della Siracusa antica) gli scavi del prof. Tanasi dal 2013 al 2015 nelle catacombe di Santa Lucia. «Scavi che – sottolinea la dott. Tiziana Ricciardi, attuale ispettore delle catacombe della Sicilia orientale della Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra – fanno parte di 5 campagne di scavo nelle catacombe di Santa Lucia iniziate nel 2011 su input dell’allora ispettore di riferimento delle catacombe della Sicilia orientale della Pontificia, la compianta prof. Maria Rita Sgarlata, archeologa, docente di Archeologia cristiana e medievale all’università di Catania, e terminate nel 2015. Nelle prime due campagne di scavo il prof. Tanasi non c’era ancora: promosse dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra con la collaborazione dell’università di Catania, avevano come direttore la prof. Sgarlata, coadiuvata nella direzione degli scavi dall’archeologa Ilenia Gradante e dall’antropologa Simona Firugo. Dal 2013 al 2015, per altre 3 campagne di scavi, la prof. Sgarlata ha allargato la collaborazione anche al prof. Davide Tanasi, allora docente dell’Arcadia University. Dal 2015 purtroppo, per carenza di fondi, ci si blocca con lo scavo sistematico, ma il prof. Tanasi dall’università della South Florida, dove nel frattempo si era trasferito, porta avanti i suoi studi di laboratorio sempre in collaborazione con la Pontificia per la quale nel frattempo io divento ispettore delle catacombe della Sicilia orientale».

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