Sicilian Post
«La Cina, quella vera, puzza di fritto». La mia nuova vita da insegnante di italiano a Chongqing
«Quando atterri in Cina lo capisci subito non per i vestiti stesi ovunque al sole, che l’ultima volta che l’hanno visto era l’anno del cavallo; non per gli addobbi del Capodanno, che toglierli pare brutto, portano fortuna; non per le scritte cinesi e il cielo bianco. La Cina la riconosci dalla puzza di fritto mista a smog che ha già impregnato i vestiti circa due secondi e mezzo dopo aver messo un piede fuori dall’aereo. Che poi non è così differente dalle abitudini culinarie siciliane, anche in Sicilia friggiamo un po’ di tutto». Martina Bucolo è catanese, ha 27 anni e ha sempre avuto la passione per la Cina. Ha iniziato insegnando cinese a ragazzini italiani presso una scuola privata a Catania; dopo, ha avuto la sua prima esperienza come “maestra” con bambini piccoli di quattro e cinque anni in un asilo di Enna. «Poi un amico cinese mi ha informato di un bando per una scuola elementare in Cina». Volo diretto da Roma destinazione Chongqing: undici ore no-stop, con un solo bagaglio in stiva per restarci sei mesi.
«STUDIA IL CINESE E DIMENTICALO». È più difficile per un cinese apprendere l’italiano che per un italiano imparare il cinese. Il cinese è molto semplice a livello grammaticale: non ha coniugazioni verbali, articoli, maschile e femminile, singolare e plurale, ma è molto complesso dal punto di vista sintattico. «È una lingua tonale, cambiando un accento cambia proprio il significato delle parole. Nǐ hǎo, mā vuol dire “Ciao mamma!”, Nǐ hǎo mǎ invece significa “Ciao cavallo”. Così, dopo un breve shock culturale, ha sistemato il suo appartamento (con una cucina un po’ ristretta a misura “cinese”), e munita del “Libro di Italiano” ha varcato per la prima volta la soglia della scuola.
FARE LA MAESTRA DI ITALIANO IN CINA. Le classi sono formate in media da 40 bambini di 10-11 anni, abituati a metodi di studio molto diversi rispetto a quelli occidentali. «Non esistono momenti dedicati all’insegnamento ludico attraverso momenti di condivisione come canzoni, balli o lavori di gruppo. In Cina c’è una cultura molto individualista e anche in una scuola elementare lo stile di insegnamento e di apprendimento è come se fosse indirizzato a una categoria di adulti. Ho fatto fatica anche a fare lavorare i bambini in coppia, dividevano il foglio per lavorare ognuno singolarmente (ride n.d.r.)». La ricreazione non esiste. Ogni lezione ha una durata di 40 minuti, seguita da 10 di pausa che trascorrono tra “il rilassamento degli occhi” e attività che variano dal salto alla corda, al calcio, e decine di flessioni; i bambini sono già rivolti ai giochi sportivi nazionali e alle olimpiadi. Ma si sa, tutto il mondo è paese: dopo poco tempo gli studenti si sono abituati alla loro Lǎoshī e lei li ha compresi sempre meglio anche se, confessa: «ogni tanto mi parlano in dialetto e non capisco nulla».
IL CIBO CINESE. «Il cibo cinese a cui siamo abituati in Italia è molto diverso, decisamente più occidentalizzato e meno speziato; a Chongqing è invece tutto molto piccante». Quando le chiediamo quale sia il suo piatto preferito, Martina risponde: «adoro tutto il cibo cinese, ma il piatto preferito è l’anatra alla pechinese, caratterizzato dalle “cinque spezie” e inserito nella lista delle portate imperiali. Ma amo anche i ravioli o il Baozi, un panetto cotto al vapore ripieno di carne». A parte il cibo fritto, i mercati sono molto simili alla nostra pescheria con la tipica “caciara”; i cinesi sono molto curiosi ma allo stesso tempo un po’ guardinghi: ti osservano, vorrebbero comunicare ma non parlano inglese. Poi con piccoli gesti ti chiamano, si avvicinano, e quando si rendono conto che sei straniero ma parli cinese non la smettono più di chiacchierare».
Foto di Martina Bucolo
L’AUTOMOBILE COME STATUS SYMBOL… E IL PIGIAMA! Martina si muove per la città utilizzando il taxi o la Metropolitana di Chongqing, ma ci racconta come molti cinesi con il desiderio di “apparire” facciano uso di “Didi” (un servizio corrispondente al nostro “Uber”) mettendosi alla guida di berline dai vetri oscurati: «Avere una vettura “importante” è simbolo di una condizione sociale agiata, anche se poi magari vedi persone girare per la città in ciabattine, shorts e camicia hawaiana, o soprattutto scendere a fare la spesa in pigiama!». Uscire di casa in pigiama in Cina, infatti, non è considerato come un atteggiamento indecoroso ed è frequente incrociare uomini e donne cinesi intenti a spingere i carrelli della spesa in camicia da notte, cuffia e pantofole.
TRA FUTURO E TRADIZIONE. Sebbene Chongqing sia sempre stata una città molto popolosa, forte della sua posizione geografica sita tra due fiumi, che ne ha sostenuto la vocazione commerciale, negli ultimi anni sta vivendo una trasformazione radicale. «I quartieri rurali stanno lasciando il posto a grandi palazzoni – continua Martina – e l’impressione evoca quella che devono aver vissuto gli italiani emigrati in America, vedere la distruzione di tutto, l’arrivo degli stranieri. La Cina è stata sempre “chiusa” e negli ultimi 15 anni ha cominciato ad aprirsi». Skyline e architetture meravigliose si alternano ad antiche locande e a immagini di vecchiette con lo stereo che ballano la sera, dopo cena. Martina ci confessa di unirsi spesso a questi momenti di vita conviviale anche perché «i colleghi cinesi sono quasi tutti sposati e hanno già una famiglia. Per loro sono già vecchia!».
Centro commerciale a Chongqing – Foto di Martina Bucolo
COSÌ LONTANO, COSÌ VICINO. Nel film “Così lontano così vicino”, Wim Wenders faceva recitare al suo protagonista la frase: «Come vorrei essere per una volta uno di loro! Vedere con i loro occhi, ascoltare con le loro orecchie, e decifrare come vivono il tempo, e subiscono la morte. Come sentono l’amore e percepiscono il mondo». Forse “una di loro” Martina lo è diventata realmente. Perché quando fai l’abitudine a un luogo che hai imparato ad amare, nonostante i suoi difetti e le contraddizioni, ti rispondi che è proprio lì che vorresti essere: «Quando arrivi in Cina puoi essere chi vuoi, ma Chongqing tira fuori chi sei veramente perché arriva un momento in cui devi fare i conti non solo con i cinesi ma anche con te stesso. Ho conosciuto persone che sono tornate immediatamente a casa; io ho capito di avere superato lo shock culturale quando durante la pausa pranzo ho iniziato ad addormentarmi ovunque: in metro, sulla scrivania… esattamente come i miei colleghi cinesi. In quel momento ho pensato che questo posto è anche un po’ casa mia».
Articolo originariamente pubblicato su Sicilian PostCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA