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Integrazione e difficoltà, come vive a Catania chi ha la pelle nera

Di Pierangela Cannone |

Catania – È tornato l’«Uomo Nero». E fa paura. Come se fosse uscito dai libri di storia e, ancora prima, dalle rime delle mamme nelle loro ninne nanne. Così che la paura si trasforma in odio e l’odio in violenza. Contro chi ha la pelle nera. È il «boomerang Salvini», come lo hanno definito gli stessi uomini e donne di colore, immigrati in Italia, in Sicilia a Catania e che hanno conquistato con fatica, negli anni, la tolleranza e il rispetto di noi, che li abbiamo sempre ospitati, seppur poi storcendo spesso il naso al ritmo dei loro bongo. Adesso, però, è troppo. Ogni giorno è un susseguirsi di episodi di violenza e aggressioni verbali e non a immigrati, giovani e meno giovani, integrati e meno integrati: ricordiamo che domenica scorsa, a Catania, tre donne africane sono state lasciate alla fermata di un bus dall’autista, che ha chiuso loro la porta automatica in faccia. Ma è altrettanto recente anche l’aggressione a un ragazzo senegalese di 19 anni, insultato e picchiato mentre stava servendo nel bar dove lavora, a Partinico, cittadina in provincia di Palermo. Ultima, ma di certo – purtroppo – non la conclusiva, è la vessazione all’atleta italiana Daisy Osakue, presa “a uova in faccia”, nel senso letterale del termine, mentre tornava a casa a Moncalieri, in Piemonte.

Eccolo il “boomerang Salvini”. «Il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha pensato di risolvere il problema europeo dell’immigrazione – dice il senegalese Oumy, che è in Italia da tredici anni e da due a Catania – con la chiusura dei porti, riducendo, quindi, le politiche di accoglienza. In questo modo, però, è come se fosse passato il messaggio che noi, gente di colore, siamo da “cacciare”. Quanto sta accadendo è vergognoso. Se finora parecchia gente ci ha sempre visto con occhi diversi, senza però ammetterlo, adesso c’è allarmismo anche tra chi non ci ha mai considerato come una minaccia. Sono molto triste». Eppure Oumy è una persona estremamente allegra e sorridente e la dice lunga il lavoro che svolge: insegna musica e danze afro ai suoi giovani allievi e la notte si diverte a suonare nelle discoteche. Il suo racconto prosegue con il ricordo degli anni francesi, dove ha abitato prima di trasferirsi in Italia. «Sono a Catania – prosegue – dal 2014. In quattro anni ho girato la Sicilia perché lo richiede il mio lavoro e ho imparato una lezione molto importante: per vivere qui, bisogna tapparsi gli occhi e, soprattutto, le orecchie. Capita spesso che la gente, per strada, faccia commenti gratuiti. Un passante, di recente, mi ha guardato in faccia dicendomi che Salvini sta venendo a prendermi… E ancora, camminando mano nella mano con una ragazza italiana, una signora ha detto “Sti cosi nun ni pozzu ‘viriri”, credendo che io non comprendessi il dialetto… . I primi periodi mi arrabbiavo e polemizzavo con chiunque mi facesse del male gratuito. Oggi, invece, ho imparato a non reagire, ma le parole feriscono ugualmente. Tuttavia, ho amici siciliani che sono come fratelli. La gente non è tutta uguale. E non solo a Catania». Perché, d’altronde, vivere da “nero” a Catania è come viverlo ovunque.

Oumy, senegalese

Un’esperienza di forte integrazione è quella di Abu, che è arrivato in Italia nel 1999, quando fu un suo amico a spingerlo a trovare fortuna in Sicilia, dal Bangladesh. «Ormai sono passati quasi vent’anni – precisa, sorridendo – ed è come se fossi italiano. I primi anni sono stati difficili, ma perché ero lontano dalla mia famiglia e non conoscevo la lingua. Nel 2005, quando mia moglie mi ha raggiunto, ho iniziato a mettere radici: i figli sono nati a Catania, dove vanno a scuola e, finora, c’è sempre stato rispetto da parte di tutti. Credo che sia una questione di reciprocità». Così anche la colombiana Diana, che è in Sicilia da «un anno e sette mesi», dice mentre tiene il conto con le dita della mano, proprio lei che i numeri ce li ha anche impressi in petto. Salta subito agli occhi, infatti, un tatuaggio che fuoriesce dalla scollatura del seno sinistro e che riporta la data di nascita della figlia, di appena due anni, con il nome: «Mia Alessia – prosegue Diana con occhi lucidi – è nata in Colombia e, subito dopo il parto, sono venuta in Italia con mia zia per trovare lavoro. Mia l’ho lasciata a mia mamma perché non ho voluto crescerla qui: l’avrebbero guardata come un’estranea, proprio come guardano me. Qui la gente è solare e carina, ma alcuni non si risparmiano nei commenti dettati dall’ignoranza».

Abdoulaye e la moglie Mariangela

A ricordarci che l’amore trionfa su ogni pregiudizio, però, è la storia di Abdoulaye e Mariangela, lui senegalese e lei catanese, marito e moglie da sette anni. «È stato difficile farci accettare come coppia – raccontano – da entrambe le famiglie. In Senegal le donne bianche sono considerate “ladre di uomini neri”, mentre a Catania c’è ancora pregiudizio nei confronti degli stranieri e sette anni fa era molto più evidente. Una sera in particolare – dice Mariangela – passeggiavamo in piazza Roma, a Catania, e alcuni bambini in bicicletta si sono avvicinati a noi dicendomi di allontanarmi da Abdoulaye per il colore della sua pelle. “Fa puzza, dicevano, e se lo tocchi ti sporchi”. Lui si mortificava e io ancora più. Mi sono vergognata di essere “bianca”, perché quelle parole rispecchiavano il pensiero dei loro genitori e ancora oggi risuonano come macigni». Si dice, infatti, che la lingua rompa le ossa ed è così: le parole feriscono più di un colpo di frusta.

Foto di Davide Anastasi

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