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Ecco il “codice Montante” fra boss, fondi in nero e scatole con i video

Di Mario Barresi |

Spiragli di verità sugli intrecci scabrosi nella trattativa Stato-mafia, col sospetto che l’“apostolo antimafia”, tramite un suo spione di fiducia, abbia qualcosa a che fare con le registrazioni (ufficialmente distrutte) delle telefonate fra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino. Ma anche una nuova luce sugli intrecci misteriosi fra Banca Nuova e i servizi segreti, oltre che i rapporti dell’istituto di credito, tanto caro all’antimafia degli affari, fra assunzioni di parenti dei soliti noti, magistrati correntisti “vip” e un vecchio ras dc come Lillo Mannino con la trattenuta sul vitalizio. C’è tutto questo, nella seconda parte dell’inchiesta che Report dedica ad Antonello Montante (in onda oggi alle 21.10 su Rai3) e agli scheletri negli armadi dei potenti siciliani. Molto più che un “sistema”: un vero e proprio “codice”.

Ed è su questo che Paolo Mondani si sofferma nella parte più “montantiana” del racconto. A partire dal colloquio con il boss nisseno Vincenzo Arnone, testimone di nozze dell’ex leader confindustriale, da poco uscito dagli arresti domiciliari. «Noi siamo cresciuti assieme», racconta l’imprenditore mafioso riferendosi a Montante, che lo volle anche fra i “saggi” di Confindustria. Compagni di scuola «dalla prima elementare alla terza media. Poi lui purtroppo ha avuto questo incidente di percorso con la moglie», con una gravidanza «ma da minorenne» poi sfociata in un matrimonio in cui Arnone e la cugina fecero da testimoni.

Ma non è una questione di vecchi rapporti. C’è anche una facies che emerge dalle imbarazzate parole del “gemello diverso”, Ivan Lo Bello, quando racconta la reazione di Montante al suo rifiuto – nel 2015, dopo la rivelazione di Repubblica sull’indagine per mafia – di sottoscrivere un documento a sostegno dell’indagato. «A botte… no a botte cioè nel senso che… è partito e non… e da lì poi si è fottuto…». E poi alcuni comportamenti, nelle carte processuali e in alcune testimonianze ora raccolte nell’inchiesta televisiva, che gettano più di un’ombra sulla genuinità del personaggio campione della legalità. Ma, oltre al già noto passaggio di 1,3 milioni in Macedonia «per un’azienda che non c’è», Report scopre l’apertura di conti di pari importo in Svizzera, fra il 2000 e il 2003. E cita un’informativa della Dia, che nel 2008 parla di Alechia, azienda della famiglia Montante, con lo scopo di accertare chi siano gli sconosciuti «altri finanziatori”» che permettono alla società di incrementare il patrimonio. E poi c’è il racconto di Luca Pasini, imprenditore di Sesto San Giovanni, su Francesco Agnello: «Mi dicevano che fosse legato a un politico dell’antimafia», dice.-Chi è costui? Avvocato palermitano, indagato per corruzione a Sesto San Giovanni, Agnello fu socio di Montante e Lo Bello fino al 2006 in “Sviluppo Messina”, le cui quote furono in seguito sequestrate dalla Procura di Palermo per motivi fiscali.

È una strana metempsicosi, quella che avviene molti anni dopo. Il giovanotto di Serradifalco, amico del mafioso in pectore, si trasforma – nonostante gli affari grigi – nel più potente simbolo nazionale dell’antimafia. Trascinando nel suo “ciclo magico” anche i più prestigiosi pezzi dello Stato. Tutti davvero ingannati dal mascariamento e ora impavidi accusatori. L’avvocato Carlo Taormina espone la sua (più che legittima) tesi: «Questi personaggi vivevano, convivevano con Montante. Stavano a casa di Montante. Mangiavano, non dico che dormivano ma mangiavano e facevano feste e riunioni conviviali in continuazione con Montante. Nel momento in cui loro accusano Montante due sono le cose: o dicono che sono stati dei cretini perché sono stati sempre con Montante oppure compiono degli atti di arroganza, sia autoassolvono». Compreso l’ex ministro Angelino Alfano, che all’Antimafia dell’Ars ha confessato di non essersi accorto di nulla, pur avendo nominato Montante al vertice dell’Agenzia dei beni confiscati alle mafie. «Due sono le cose: o è un cretino oppure oggi prende posizioni di comodo e si nasconde anche lui come… i topi dentro le fogne», sibila l’avvocato difensore.

Fra l’ascesa e la caduta dell’ex leader siciliano c’è una costante: l’opacità della posizione di Confindustria. Fino alla circostanza (smentita da Viale dell’Astronomia) dell’esistenza di uno «scatolone pieno di cassette registrate» inviato da Montante a Giancarlo Coccia, capo del personale di Viale dell’Astronomia, come racconta in video un ex dirigente celato. Confindustria smentisce. E, sempre a proposito di video, smentisce anche Rosario Crocetta. Il filmino con cui, secondo i pm di Caltanissetta, Montante lo ricattava non esiste. «Io conduco una vita integerrima, anzi della quale mi pento», dice l’ex governatore indagato. Confessando: «I peccati che ho dovuti fare, li ho fatti già in giovinezza. E adesso mi posso guadagnare la santità». Ci sarebbe pure da ridere, se non venisse da piangere con le rivelazioni di altri imprenditori. L’ex assessore regionale ed ex dirigente confindustriale Marco Venturi è durissimo sull’ex presidente nazionale Giorgio Squinzi: «Eseguiva gli ordini di Montante». Ma parla, per la prima volta, del caso anche Vincenzo Conticello, ex titolare della “Focacceria San Francesco” di Palermo, ora dipendente regionale dopo minacce e intimidazioni subite per aver denunciato il racket, da dicembre senza scorta. Conticello si sfoga sulla strumentalizzazione della sua vicenda da parte di certa antimafia, ma non dice nulla sulle vicende dell’Expo (secondo alcune indiscrezioni, non smentite dalla Procura di Caltanissetta, sarebbe lui il testimone-chiave della seconda tranche dell’inchiesta) in quello che Claudio Fava, intervistato, definisce «un sistema che ricorda molto quello della P2».

Ma Report va oltre. E, parlando di “codice Montante”, allarga la prospettiva ad altri eroi di una stagione antimafia con più ombre che luci. Parla di nuovo Beppe Lumia. Che, davanti alla telecamere, si autodefinisce così: «Sono un condannato a morte da parte della mafia. Nell’ultima sentenza del processo “Trattativa” emerge ancora una scelta di Cosa nostra di colpirmi. Quindi questa mia scelta e questa coerenza la rivendico, la porto avanti con umiltà e la difendo nei confronti di chiunque la voglia mascariare». Ma il vero scoop di questa puntata è l’intervista a Pietro Di Vincenzo, ex presidente di Confindustria Caltanissetta, che rivela di aver versato alla fine degli Anni 90, tramite l’allora presidente dell’Asi, «un contributo nella misura cento milioni di vecchie lire» destinato allo stesso Lumia. Di Vincenzo, che ha scontato 10 anni per estorsione ma è stato assolto per il reato di concorso esterno alla mafia (pur con la confisca di 280 milioni di euro) rivela di aver chiesto al “senatore della porta accanto” la conferma della ricezione dei soldi in contanti. E Lumia, «incontrato a Roma a piazza Argentina», gli «diede conferma di questo fatto». L’imprenditore nisseno denuncio, nel 2010, l’episodio all’autorità giudiziaria. «Giuseppe Lumia smentisce tutto e tutti», precisa però Report nel servizio in onda oggi.

Infine, una new entry. Nell’inchiesta televisiva si parla di Giuseppe Antoci. In un colloquio con Giuseppe Foti Belligambi, uno dei 14 pregiudicati indagati (e poi archiviati) dai pm di Messina per il tentato attentato del 18 maggio 2016 all’ex presidente del parco dei Nebrodi. «Con chi parlavi parlavi, nel paese, fuori del Paese, si parla di politica e questo attentato secondo tutte le persone, le nostre opinioni poteva essere un attentato falso», dice l’allevatore. Come retroscena dell’inchiesta si svela l’iniziativa dell’allora procuratore di Messina, Guido Lo Forte, che chiese alle forze di polizia di sviscerare le fonti più accreditate in ambito mafioso, «soprattutto dalla cosca di Barcellona Pozzo di Gotto». Questo il racconto dell’ex vicequestore Mario Ceraolo: «Ho attivato delle fonti che si erano dimostrate attendibili, di solito su eventi anche particolarmente gravi. E la risposta – ricorda l’ex dirigente del commissariato di Barcellona – è stata abbastanza, come dire, unanime nel senso che tutte le fonti hanno riferito che la mafia in quell’attentato non c’entrava nulla, che si trattava di una “babbarìa”, l’hanno definita, che era collegata con la politica. Lì è stata la politica. È la politica». Ma Antoci ribatte: «Purtroppo a volte, oltre che combattere la mafia, si devono combattere zelanti mascariatori». E allora come mai fallì l’attentato? «Qui la mafia non aveva sbagliato. Quell’attentato è tecnicmante riuscito, purtroppo». Avrà pure ragione, il portabandiera nazionale della legalità per il Pd. Ma resta in sospeso il dubbio che si pone Fabio Venezia, sindaco di Troina: «Se forse negli ultimi anni abbia fatto più danni l’antimafia che la mafia stessa, in questa maledetta terra di Sicilia».

Twitter: @MarioBarresi

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