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L’omicidio del giudice Scopelliti, gli indagati catanesi e Matteo Messina Denaro: a 32 anni dal delitto si spera nella verità

È ancora aperta l’indagine della procura di Reggio Calabria sull’uccisione del magistrato alla vigilia del maxi processo alla mafia siciliana in Cassazione

Di Laura Distefano |

È ancora aperta l’indagine alla procura di Reggio Calabria sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso nel 1991 alla vigilia del maxi processo alla mafia siciliana in Cassazione. E in quel fascicolo c’è il nome del padrino Matteo Messina Denaro, catturato a Palermo qualche giorno fa dopo 30 anni di latitanza. A far riaprire l’inchiesta fu un catanese. Precisamente il pentito Maurizio Avola, ex soldato del gruppo santapaoliano di Ognina guidato da Marcello D’Agata. 

Il killer dagli occhi di ghiaccio, che pare aver avuto un’illuminazione nei ricordi dopo venti anni dall’inizio della sua collaborazione, portò sei anni fa i poliziotti della Squadra Mobile di Reggio Calabria nella campagne etnee per recuperare un vecchio fucile seppellito lì da decenni dicendo che sarebbe stata l’arma con cui fu ammazzato il sostituto procuratore generale.

Per poter fare l’esame balistico sul fucile – seguendo la normativa sul diritto di difesa – furono notificati nel 2019 sedici avvisi di accertamenti irripetibili al boss di Castelvetrano e altri mafiosi siciliani e calabresi firmati dal procuratore Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e dal pm Stefano Musolino. 

Quell’atto permise la discovery di un’indagine che a quanto pare potrebbe portare a 32 anni dal delitto qualche nuova sorpresa. Molti degli indagati sono catanesi. E sono Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea (a piede libero), Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e naturalmente Maurizio Avola. 

I catanesi – a dire del killer – agirono senza l’appoggio dei calabresi. Anche se ebbero l’autorizzazione per poter uccidere nella loro terra.

Resta da capire perché Avola, che asserisce di aver partecipato in prima persona all’omicidio di Nino Scopelliti, si portò il fucile fino a Catania trasportandolo non solo in auto, ma rischiando i controlli nel traghetto per attraversare lo stretto di Messina. Ma questi sono dubbi che sicuramente i magistrati che lo interrogarono avranno puntellato. Purtroppo quell’arma era così arrugginita che non si poté fare alcun accertamento balistico. Così quella che avrebbe dovuto essere la prova regina si tramutò in una bolla di sapone.

Ma per tenere ancora aperto il fascicolo i pm della Dda di Reggio Calabria avranno sicuramente altre frecce al loro arco. E non solo la pista catanese. Anche perché alcuni anni fa ci furono dichiarazioni da parte della procura di Caltanissetta in merito alle dichiarazioni di Avola sulla strage di via D’Amelio che misero parecchio in dubbio le rivelazioni del collaboratore di giustizia. 

 In passato, su questo delitto ci fu un processo che si concluse con l’assoluzione di numerosi boss siciliani tra cui il padrino di Catania Nitto Santapaola. 

Intanto una cosa è certa. Non esiste ancora una verità processuale sul delitto. Sono passati quasi 32 anni dall’agguato avvenuto sulla tortuosa statale 18 tra Scilla e Campo Calabro. Il 9 agosto 1991 il sostituto procuratore Generale della Cassazione stava tornando a casa dopo una giornata di mare al lido Costa Viola. Sulla sua scrivania i faldoni del maxi processo a Cosa nostra siciliana, che da lì a breve avrebbe dovuto discutere davanti alla Suprema Corte. Ed è in quelle carte che molti, in questi tre lunghi decenni, hanno scavato cercando il movente. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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