Cronaca
Mafia nell’Agrigentino, sventati due omicidi: ecco chi sono i fermati
Sono 23 gli indagati dell’operazione dei Carabinieri del ROS, che con il supporto operativo dei Carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento e l’ausilio dei Comandi Provinciali di Trapani, Caltanissetta e Palermo, del XII Reggimento “Sicilia”, dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Sicilia” e del 9° Nucleo Elicotteri, ha eseguito un Decreto di Fermo di indiziato di delitto emesso dalla Dda di Palermo. Ventidue sono stati arrestati, un altro – Matteo Messino Denaro è invece latitante – e tutti sono accusato a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso (cosa nostra e stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione ed altri reati aggravati poiché commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso.
Le indagini hanno preso il via nel 2018 e si sono sviluppate nella parte centro orientale della provincia di Agrigento dove – secondo gli investigatori – risulta attivo il mandamento mafioso di Canicattì che costituisce tuttora l’epicentro del potere mafioso dell’ergastolano campobellese Giuseppe Falsone, anche lui tra i destinatari del provvedimento perché risultato a capo della provincia mafiosa di Agrigento nonostante sia da anni in carcere con il regime del 41 bis.
Tra le persone coinvolte Calogero Di Caro capo del mandamento, Giancarlo Buggea rappresentante di Falsone e organizzatore del mandamento, nonché Luigi Boncori, capo della famiglia di Ravanusa.
Secondo gli investigatori un ruolo di rilievo ha ricoperto Angela Porcello, compagna di Giancarlo Buggea, che, in qualità di difensore di numerosi affiliati del Mandamento, tra cui dello stesso Falsone, sfruttando le garanzie del mandato difensivo, ha messo a disposizione degli stessi il proprio studio legale per summit mafiosi, ritenendolo luogo non soggetto ad investigazioni.
Nello studio della Porcello, infatti, secondo gli investigatori si sono svolti incontri che hanno riguardato esponenti mafiosi di primo piano quali Luigi Boncori (capo della famiglia mafiosa di Ravanusa), Giuseppe Sicilia (capo della famiglia di Favara), Giovanni Lauria (capo della famiglia mafiosa di Licata), Simone Castello (uomo d’onore di Villabate, già fedelissimo di Bernardo Provenzano) e Antonino Chiazza (esponente di vertice della rinata stidda).
Sul punto gli elementi raccolti hanno anche permesso di accertare che Giuseppe Falsone, sottoposto al regime ex art. 41 bis oltre a riuscire ad interagire con altri uomini d’onore (diversi da quelli con cui svolge i previsti periodi di socialità) servendosi dell’avvocato Angela Porcello, ha veicolato e ricevuto informazioni, mantenendo così la direzione operativa della provincia mafiosa di Agrigento.
Inoltre, sono stati ricostruiti i rapporti tra i rappresentanti del mandamento di Canicattì con esponenti di altre omologhe strutture delle province di Agrigento, Trapani, Catania e Palermo.
Rilevanti i contatti con esponenti della famiglia Gambino di cosa nostra newyorkese, interessata ad avviare articolate attività di riciclaggio di denaro con cosa nostra siciliana.
Le investigazioni hanno inoltre messo in luce la presenza nel territorio di Canicattì della stidda, organizzazione mafiosa ricostituitasi intorno alle figure degli ergastolani semiliberi Antonio Gallea (ritenuto mandante, dell’omicidio del Giudice Rosario Livatino avvenuto il 21 settembre 1990) e Santo Gioacchino Rinallo. In manette anche Giuseppe Giuliana. La stidda, persistendo la situazione di pacificazione risalente agli anni ’90, opererebbe in rapporti di sinergia con cosa nostra, sia per la risoluzione di problematiche che per la spartizione delle attività criminali.
Al riguardo, grande rilievo assume il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli della provincia di Agrigento che, oltre a garantire rilevantissime entrate nelle casse delle organizzazioni. In tale quadro, è stato pure sventato un progetto omicidiario organizzato dagli esponenti della stidda in danno di un mediatore e un imprenditore che non avevano corrisposto – a titolo estorsivo – alla nominata associazione mafiosa parte dei guadagni realizzati con le loro attività.
L’inchiesta ha anche confermato la perdurante posizione apicale, nell’ambito di cosa nostra, di Matteo Messina Denaro che, punto di riferimento decisionale dell’organizzazione, ha continuato a impartire direttive sugli affari illeciti più rilevanti gestiti dal sodalizio nella provincia di Trapani ed in altri luoghi della Sicilia.
I provvedimenti di fermo sono stati notificati anche a Messina Denaro e a Falsone perché rispettivamente al vertice della provincia mafiosa di Trapani e della provincia mafiosa di Agrigento, gli esponenti di vertice di diverse articolazioni mafiose di cosa nostra di Canicattì e Favara, nonché capi, promotori e organizzatori della rinnovata associazione mafiosa stidda.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA