L'opinione
L’aborto, i diritti delle donne e ciò che l’Europa non vuole vedere
Il riferimento è alla deliberazione del Parlamento europeo che giovedì ha chiesto di inserire l’aborto come diritto da riconoscere ad ogni donna e da inserire nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Il tema è di quelli assai delicati, perché solo ad avanzare taluni dubbi è facile incappare nei giudizi di bigotteria o di maschilismo. Ma ciò non può essere motivo per tacere, perché tanto ognuno fa quello che vuole. Sì, perché alla fine l’esito è questo: ogni persona fa ciò che vuole e nessuno può dire niente, che è un esito al tempo stesso prodotto di un individualismo esasperato e foriero di gravi contraddizioni.Il riferimento è alla deliberazione del Parlamento europeo che giovedì ha chiesto di inserire l’aborto come diritto da riconoscere ad ogni donna e da inserire nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, il quale allora diventerebbe che «tutte le persone hanno il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo, all’accesso libero, informato, completo e universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai relativi servizi sanitari senza discriminazioni, compreso l’accesso all’aborto sicuro e legale».
Tecnicamente si tratta di una proposta la cui approvazione richiede il consenso dei 27 Stati che compongono l’Unione europea, ma è una posizione assai importante perché pretende di entrare nel campo dei diritti e di decidere per tutti. Lo stesso articolo nella Carta passerebbe dalla proclamazione che «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica», all’«autodeterminazione sul proprio corpo» che comprenderebbe come parte essenziale il diritto all’aborto.
Non comprendo se un tale diritto dovrebbe riguardare tutto il periodo della gestazione oppure potrebbe essere regolato. In Italia, infatti, la legge del 1978 distingue tra l’aborto necessario per salvare la vita della donna oppure per la presenza di malformazioni del nascituro, esperibile senza limiti temporali; e l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza, non del tutto “libero” ma deciso per il serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, o per le sue condizioni economiche-familiari, o per le circostanze del concepimento. Tanto è vero che si dice che l’interruzione della gravidanza è stata procedimentalizzata dalla legge.La deliberazione-proposta del Parlamento europeo sembrerebbe negare agli Stati la possibilità di regolare la stessa procedura dell’interruzione volontaria di gravidanza, distinguere i tempi e i casi. Si darebbe rilievo e potere solo ad uno dei soggetti del rapporto, la donna appunto. Poi di fatto, questa donna risente di tutte le pressioni che riducono la gravidanza ad un “suo” problema personale del quale occuparsi da sola.
Non sto qui a ricordare che nel nostro ordinamento l’aborto è stato introdotto come una sorta di situazione di necessità, perché ciò alla fine oggi non interessa più di tanto. Il fatto è che la gravidanza implica sempre un rapporto a due con il nascituro, se non a tre con il padre. Tutti richiedono il riconoscimento di diritti. Mi rendo conto che tutto ciò “passa” sul corpo della donna. Eppure non può essere un diritto assoluto ed incondizionato quello di interrompere per sempre il rapporto con gli altri, fare della gravidanza un problema. Che è poi la soluzione più facile, piuttosto che investire in cultura della solidarietà.
L’aborto è l’esito di un percorso che non vede altre soluzioni: per questo non è un diritto, simile alla libertà personale, alla libertà di movimento o a quella di opinione politica o, appunto, al diritto alla vita o alla salute, pur essi riconosciuti oggi dagli articoli 2 e 3 della Carta europea dei diritti fondamentali.Proposte come quella del Parlamento europeo vengono, del resto, da Paesi ricchi come la Francia, esse sono l’espressione di una cultura individualistica e non di considerazione dei bisogni sociali.Un’ultima osservazione viene da fare. In America l’aborto nei primi 90 giorni è stato introdotto da una sentenza della Corte suprema del 1973 come “portato” del diritto alla privacy riconosciuto qualche anno prima. Ora il diritto alla privacy è in quella stessa giurisprudenza il diritto “ad essere lasciato solo”. Questa concezione spaventa perché spezza ogni legame di solidarietà sociale, pur affermato in tante altre occasioni ed in altri contesti, ad esempio quello dell’obbligo di prendersi cura dei figli nelle più diverse forme, da quelle di educazione al mantenimento. I figli non sono mai “roba” dei genitori, ma persone che hanno bisogno di cure, assistenza, formazione: una volta che gli abbiamo fatti, abbiamo il dovere di interessarci di loro.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA