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Berlusconi e Dell’Utri, quel legame solidissimo e chiacchieratissimo

Di Lara Sirignano |

Tra i 36 loculi con vista sul sarcofago del leader, fatti realizzare per parenti e fedelissimi nella cripta del parco di Villa San Martino, uno era per lui, Marcello Dell’Utri, l’amico di una vita, il custode, dicono da sempre gli inquirenti, dei segreti sulle relazioni pericolose tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra.

Il fondatore di Forza Italia l’avrebbe voluto accanto a sé per l’eternità in nome di un legame decisamente chiacchierato ma mai rinnegato. Un rapporto indissolubile nato a Milano, dove Dell’Utri, palermitano, fresco di maturità classica, negli anni ’60 si era trasferito per studiare Giurisprudenza.

I due si conoscono tramite un amico comune. Berlusconi, di poco più grande, gli passa i libri usati per gli studi e non se li fa pagare. Tra loro nasce un rapporto strettissimo. Nel 1964, a 23 anni, Dell’Utri diventa segretario personale di Berlusconi e allenatore della Torrescalla, la squadra di calcio che l’imprenditore, allora in erba, sponsorizzava.

Una breve parentesi romana e il temporaneo ritorno a Palermo dell’amico avviato a una brillante carriera in banca grazie al rapporto col finanziere Filippo Alberto Rapisarda (legato al boss Stefano Bontate) non dividono però le strade dei due amici.

Sarà proprio Berlusconi, infatti, nel ’74, a chiede a Dell’Utri di tornare a Milano e di cominciare con lui l’avventura della Edilnord, la società immobiliare del leader di Fi. Il bancario accetta. Molla tutto e vola nel capoluogo lombardo e all’amico imprenditore presenta una conoscenza palermitana, Vittorio Mangano, che farà impiegare nella residenza del capo, ad Arcore, ufficialmente come stalliere.

Mangano, dicono le sentenze, è molto di più di un addetto ai cavalli. Mafioso di spicco del mandamento di Porta nuova, il fattore, scriveranno poi i giudici, è ad Arcore per proteggere Berlusconi e i suoi dalla mafia. Una garanzia, dunque, concordata, per il tramite dell’amico palermitano, con l’allora capo dei capi di Cosa nostra Stefano Bontate, detto il principe di Villagrazia.

«Bontate mi disse che dovevamo incontrare un industriale, un certo Berlusconi – racconta il pentito Francesco Di Carlo – Entrammo in una grande stanza e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui 30 e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi che disse che stava costruendo una città intera. Poi sono andati nel discorso di garanzia che Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti… Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia e aggiunge: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo ed altro”».

«Le mando qualcuno», avrebbe risposto Bontate. E quel qualcuno era Mangano. In cambio della protezione Berlusconi avrebbe pagato fior di milioni. Prima a Bontate e ai suoi, poi ai boss usciti vincitori della guerra di mafia: i corleonesi. Dell’Utri ha sempre negato di essere stato a conoscenza del ruolo dello stalliere in Cosa nostra. Un silenzio, il suo, che ha resistito ad anni di processi, alle insinuazioni sull’origine illecita delle ricchezze dell’amico meneghino e a una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa proprio per i suoi legami con le cosche.

Incaricato di occuparsi del nascituro partito dell’imprenditore, per anni manager in Publitalia, Dell’Utri da Berlusconi non si è mai allontanato. Una fedeltà ripagata non solo a parole. Nel 2012 Berlusconi gli ricompra per 21 milioni di euro una villa sul lago di Como che, secondo i magistrati, vale dieci volte meno, paga i suoi difensori e gli riconosce un vitalizio di 30mila euro al mese. Solo generosità? Il prezzo del silenzio dicono alcuni.

Ma anche nel suo testamento il Cavaliere ha voluto ancora una volta testimoniare il suo legame e la sua riconoscenza nei confronti dell’amico di una vita: una «donazione» di 30 milioni di euro.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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