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Contatti sociali ridotti al minimo, così il coronavirus cambia gli stili di vita degli italiani

Di Alessandra Magliaro |

ROMA – Un metro e 82: quando sarà finito tutto questo rimarranno le tre cifre della distanza a ricordarci in sintesi come andava la vita in Italia al tempo del coronavirus. Le strette di mano sono vietate, gli abbracci anche, che pure è provato scientificamente in tempi normali fanno benissimo, e nei luoghi pubblici c’è da rispettare quella certa lontananza.

Il ciao ciao con la mano profumata di alcol è il gesto al momento più popolare. Le conseguenze sono molte, «scambiatevi un gesto di pace» durante la messa si va a far benedire ad esempio, e paradossalmente la vita social che da anni e invano tutti proviamo a combattere a favore della vita sociale segna un netto sorpasso. Se lezioni scolastiche, incontri sportivi, sante messe e tanto altro sono non più live ma in collegamento, ecco che la vita diventa un gigantesco streaming e la nostra dipendenza dal web scandisce la giornata più di quanto già non faccia. Non incontriamo persone, ma chattiamo con loro, non andiamo in chiesa ma ci colleghiamo su Facebook, non andiamo al lavoro ma facciamo lo smart working, non vediamo i parenti ma li videochiamiamo anche se abitano nella nostra città. Con le scuole chiuse, chi può prende le ferie (le vacanze estive salteranno?), tutti a casa o all’aria aperta, perché anzi quella è raccomandata dal Dpcm, il nuovo decreto del presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

L’emergenza coronavirus impone cambiamenti di abitudini, riscoperta di passatempi dimenticati, socialità ristretta ma soprattutto condizionata. A casa i figli, quando non sono su Instagram o su Fortnite, pasticciano con la cucina improvvisandosi chef (è accaduto così anche in Cina), aiutati dai soliti tutorial: il cibo che è centrale nella nostra vita diventa un modo per passare la giornata a lezioni sospese. Si prevedono impennate di lasagne e polpette fatte in casa e forse esperimenti di complicati uramaki roll visto che l’all you can eat nei ristoranti asiatici al momento lo evitano quasi tutti.

Lo schermo tv o web, il famoso focolare domestico, domina: dalla tv generalista alle piattaforme a pagamento è tutto uno streaming di film e serie amate (nella crisi generale il più fortunato è Disney+, il 24 marzo è il lancio mondiale). Gli anziani (la carta d’identità non fa sconti, nella categoria ci sono gli over 65 e pazienza se si sentono ragazzini) anche non affetti da patologie devono riguardarsi e uscire il meno possibile.

Ma se il tema distanza di sicurezza interessa i luoghi chiusi – dal cinema alle palestre – trascorrere più tempo all’aria aperta è consigliabile (tra l’altro c’è meno inquinamento, effetto collaterale positivo, uno dei pochi): le passeggiate nei parchi cittadini diventano di gran moda. Una vita diversa ci costringe a cambiare, trascorrere probabilmente più tempo con i figli, tirar giù dall’armadio Monopoly e Trivial, tenere lezioni intergenerazionali di poker perché può sempre essere utile, finalmente leggere i libri che ci eravamo ripromessi.

Il difficile sarà far capire ai ragazzi che la scuola sospesa non è vacanza e bisogna studiare e non far diventare questo tempo un periodo di bagordi promiscui. Se i genitori sono nel panico, il mondo del lavoro è sull’orlo del baratro. La vita al tempo del coronavirus è surreale? «Anche la pandemia lo è, bisogna attenersi alle regole e adattarsi. L’uomo ha una storia di adattamento e sinceramente il coronavirus è un problema per il semplice fatto che pretendiamo di non modificare le nostre abitudini, non vogliamo scomodità – dice, anzi tuona, il filosofo Umberto Galimberti – non vogliamo rinunciare al nostro sistema di vita. La sospensione delle nostre abitudini ci rende isterici, ci mette a disagio, ma è un’esagerazione: abbiamo pensato alla sospensione dei diritti umani a pochi passi da noi? Dobbiamo essere realistici, metterci in relazione con il resto del mondo e sinceramente vergognarci».

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