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Le cosche dei Nebrodi e la maxi truffra all’Ue: chiesto più di mille anni di carcere
Oltre mille anni di carcere sono stati chiesti dalla Dda di Messina nei confronti di 101 imputati del processo sulla mafia dei Nebrodi. La Procura, guidata da Maurizio De Lucia ha anche chiesto confische di denaro e attività per oltre 30 milioni. Pene durissime per un dibattimento celebrato in tempi record e che ha visto impegnati 4 pm: l’aggiunto Vito Di Giorgio, i magistrati Fabrizio Monaco, Antonio Carchietti e Alessandro Lo Gerfo. Il processo nasce dall’operazione denominata «Nebrodi» che, oltre a ricostruire l'organigramma dei clan messinesi, ha scoperto una truffa milionaria, commessa dalle cosche, ai danni dell’Ue.
L’inchiesta culminata nel processo portò, il 15 gennaio del 2020, a 94 arresti e al sequestro di 151 aziende agricole. Si è trattato di una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e la più imponente, sul versante degli accertamenti sulle frodi sui Fondi Europei dell’Agricoltura mai eseguita in Italia. L’indagine, svolta dalla Guardia di Finanza di Messina e dei Carabinieri del ROS, scoprì che i clan avevano per anni incassato indebitamente risorse europee per oltre 5,5 milioni di euro, mettendo a segno centinaia di truffe all’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), l’ente che eroga i finanziamenti stanziati dall’Ue ai produttori agricoli.
A fiutare l’affare milionario sono stati i clan storici di Tortorici, paese dei Nebrodi, i Batanesi e i Bontempo Scavo, che, anche grazie all’aiuto di un notaio compiacente e di funzionari dei Centri Commerciali Agricoli (CCA) che istruiscono le pratiche per l’accesso ai contributi europei per l’agricoltura, hanno incassato fiumi di denaro. I due clan, invece di farsi la guerra, si sono alleati, spartendosi virtualmente gli appezzamenti di terreno, in larghissime aree della Sicilia ed anche al di fuori dalla regione, necessari per le richieste di sovvenzioni. «Ciò – scrisse il gip che dispose gli arresti su richiesta della Dda di Messina- con gravissimo inquinamento dell’economia legale, e con la privazione di ingenti risorse pubbliche per gli operatori onesti». La truffa si basava sulla individuazione di terreni "liberi" (quelli, cioè per i quali non erano state presentate domande di contributi). A segnalare gli appezzamenti utili spesso erano i dipendenti dei CCA che avevano accesso alle banche dati. La disponibilità dei terreni da indicare era ottenuta o imponendo ai proprietari reali di stipulare falsi contratti di affitto con prestanomi dei mafiosi o attraverso atti notarili falsi. Sulla base della finta disponibilità delle particelle, veniva istruita da funzionari complici la pratica per richiedere le somme che poi venivano accreditate al richiedente prestanome dei boss spesso su conti esteri. «La percezione fraudolenta delle somme – spiegò il gip – era possibile grazie all’apporto compiacente di colletti bianchi, collaboratori dell’A.G.E.A., un notaio, responsabili dei centri C.A.A., che avevano il know-how necessario per procurare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei gangli vitali di tali meccanismi di erogazione di spesa pubblica e che conoscevano i limiti del sistema dei controlli». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA