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La caduta del Muro di Palazzolo Acreide San Paolo «visita» San Sebastiano

La caduta del Muro di Palazzolo Acreide San Paolo visita San Sebastiano

Il terremoto del 1693 causò settecento morti e distruzioni ma tra le macerie lasciò intatta la statua di San Sebastiano. Per i suoi devoti fu un miracolo, per i suoi denigratori invece mostrò la sua impotenza di santo che non aveva saputo evitare il disastro, con l'aggravante di aver pensato a salvare solo sé stesso.

Di Salvatore Scalia |

A Palazzolo Acreide, dicono, la devozione vince la fede. Non hai il tempo di riflettere sulla sottile distinzione, che devi affrontare il sofisma sulla differenza tra patrono e protettore, oltre a interpretare lo scetticismo di chi, pregando di restare anonimo, nella chiesa di San Sebastiano ti sussurra all’orecchio: sì, protettore. Il tono nega l’affermazione.

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Sei appena arrivato a piazza del Popolo, cuore di questa ospitale cittadina sugli Iblei a settecento metri d’altezza, avendo in testa Antonino Uccello (1922-1979), archeologia, il barone Gabriele Judica (1760-1835), monumenti barocchi, cagnoli apotropaici e beffardi sotto i balconi, antichi viaggiatori, la valle dell’Anapo, e invece vieni immediatamente risucchiato in una secolare guerra di santi. Eppure il primo annuncio era stato di pacificazione, del miracolo operato dal giubileo della Misericordia indetto da papa Francesco: per la prima volta nella storia San Paolo, il patrono, ha fatto visita a San Sebastiano, il protettore.

“Per noi è stata come la caduta del Muro di Berlino”, afferma Nello Costa, ex imbianchino e presidente dell’Associazione culturale Cibele, palazzolese residente a Siracusa che viene ogni mattina in autobus e se ne torna la sera, dopo avere esercitato il suo spirito critico, come si addice a un pensionato che ama la città natale.

Il muro nelle teste però non è crollato, soprattutto nei vecchi. Michele Gallo, detto Padreterno e componente della commissione per la festa di San Paolo, racconta che ha dovuto subire parecchi rimbrotti. “Ci hanno ricordato di quando dall’alto i sammastianisi ci prendevano a pietrate.”

Di mestiere fa il muratore, ma, aggiunge, con un’esitazione piena di pudore, che è disoccupato. Il grande gesto è stato fatto con convinzione, ma, per rassicurare i contestatori, tiene a precisare che non ha cancellato la rivalità.

Della storica contesa ognuno vi sa dire le date principali. Nel 1688 San Pietro fu votato come patrono e nel 1690 giunse il consenso del Papa. Il terremoto del 1693 causò settecento morti e distruzioni ma tra le macerie lasciò intatta la statua di San Sebastiano. Per i suoi devoti fu un miracolo, per i suoi denigratori invece mostrò la sua impotenza di santo che non aveva saputo evitare il disastro, con l’aggravante di aver pensato a salvare solo sé stesso.

Menti cavillose hanno sempre a che appigliarsi. È certamente divenuta anacronistica la rivalità sociale alle origini di questa guerra di santi: i sampaulisi erano gli aristocratici e i contadini del quartiere basso, mentre i sammastianisi erano artigiani e borghesi della zona alta. Le fattezze stesse dei due rivali inconsapevoli denotano differenze di classe: l’uno rude, con una folta barba nera, una spada in pugno da uomo combattivo; efebico, delicato, trafitto dalle frecce, l’altro. Nell’architettura barocca delle rispettive chiese invece le parti s’invertono: aerea, ariosa, leggera, che s’impenna verso il cielo, quella di San Paolo; più massiccia e monumentale la basilica di San Sebastiano che sovrasta piazza del Popolo.

L’aneddotica sulla rivalità è infinita, sotterfugi e divieti, dileggi e bastonature, devoti che proclamano coraggiosamente la propria appartenenza rischiando il martirio, fedifraghi, statue barcollanti per eccesso di bibite alcoliche offerte ai portatori. Nel 1851 furono apposte sui muri della città 24 lapidi a delimitare i confini.

Al Circolo Gabriele Judica il maestro Nello Blancato, uomo minuto e affabile, è una miniera di informazioni. Considera creativa e presidio di forte identità la rivalità. Ha un’accuratezza filologica nel dipanare le tradizioni di Palazzolo. Contesta bonariamente a un indaffaratissimo assessore ai Beni culturali, Luca Russo, l’avere inserito nel programma del Carnevale una generica sagra del dolce: di cannoli di ricotta si doveva parlare, per la loro forma fallica in sintonia con lo spirito godereccio e carnale del Carnevale.

Se esiste un culto che accomuna tutti i palazzolesi è quello per la salsiccia, fatta con il suino nero. Di autentica venerazione si tratta. Abbiamo ascoltato perfino un’improbabile ricostruzione storica delle origini: in principio fu la mandibola di maiale, resto di vittime sacrificali, ritrovata accanto al tempio di Afrodite nell’antica Akrai; dopo i greci vennero i romani che, avendo appresa in Lucania la tecnica della lavorazione, diffusero la sasizza nell’Impero e in particolare a Palazzolo Acreide.

Qui si colgono la spiritualità e la sensualità del Barocco, qui convivono la fede e la carnalità, qui si respira nell’aria il motto taverna vita eterna. Chi se lo può permettere, ci racconta il veterinario Giuseppe Valvo, a casa ha la stanza dello schiticchio, con forno a legna, per bagordi riservati a compagnie essenzialmente maschili.

A Palazzolo il culto della gola più che uno dei sette vizi capitali è arte e mestiere. I personaggi più famosi attualmente sono il cuoco Andrea Alì e il pasticciere Sebastiano Monaco, che partecipano a trasmissioni televisive dove enfatizzano i prodotti locali come il tartufo del bosco di Baulì. Mentre i giovani con qualche ambizione emigrano, restare è stata la loro scommessa. Rari sono ormai gli artigiani. Nuccia Ferla fa ancora tappeti, possiede tre telai. “Economicamente è una follia, lo faccio solo per passione.” 

Diecimila abitanti, 277 aziende bovine e 35 suine, 26 ristorati e pizzerie, pasticcerie rinomate, un’osteria; piccole comunità di emigrati sparsi per il Nord Italia, l’Europa, gli Stati Uniti, Melbourne e Sidney in Australia; cinquecento rumeni, in gran parte badanti, di cui una fortunata ha sposato l’assistito ed è rimasta presto vedova e ricca; 112 impiegati comunali di cui solo 10 precari, Palazzolo Acreide ha ormai assorbito la mutazione genetica di cui Antonino Uccello aveva intravisto gli albori e che gli aveva ispirato la missione di conservare i reperti della millenaria civiltà contadina in via di estinzione. Volle preservare dalla distruzione e dall’oblìo tutto ciò che si tendeva a distruggere in quanto ricordo di miseria, sudore, sfruttamento e sofferenze. E divenne il custode della memoria.

Per anni il maestro etnologo è stato un’icona della cultura siciliana, ora la sua figura si è appannata. Ci fu un tempo in cui si andava a Palazzolo per visitare la sua casa museo. Capitava che t’accogliesse lo stesso Uccello spiegandoti le funzioni della casa ri stari e della casa ri massaria, ti mostrasse le collezioni, raccontando straordinarie avventure, mentre la moglie preparava il caffè.

Negli oggetti più umili sapeva leggere i simboli di una cultura popolare che aveva rispetto per le cose, ne sapeva interpretare i messaggi e le sapeva impreziosire. Lo ricordo una volta, venuto in visita con Carlo Muscetta, che si stava dedicando alle cartaveline disegnate e colorate, usate per avvolgere le arance, in tempi in cui erano considerate il dono di un’isola generosa da trattare con cura e devozione.

Uccello, maestro in Lombardia a Cantù, lettore di Gramsci, aveva dedicato, coadiuvato dalla moglie, ogni attimo del suo tempo libero e ogni risparmio alla sua passione di etnologo. Aveva acquistato il palazzo dell’attuale Museo regionale in via Machiavelli, approfittando del deprezzamento che aveva subìto in quanto vi era stato assassinato il proprietario. Liberatolo da fantasmi immaginari l’aveva popolato dello spirito di una civiltà che andava scomparendo.

Fu un precursore, incompreso e osteggiato dal potere politico, che ha avuto un’infinità di emulatori. Nella storia di Palazzolo Acreide il nome dell’umile maestro merita di stare accanto a quello del barone Gabriele Judica, che nei primi dell’Ottocento mise alla luce la zona archeologica, dal Bouleuterion al Teatro, alle latomie dell’Intagliata e dell’Intagliatella, e scrisse il libro Le antichità di Akrai. Dopo varie vicissitudini la sua collezione è esposta nel museo che porta il suo nome a palazzo Cappellani.

Statuette, lucerne, anfore, pesi, biberon in terracotta, lo strigile con cui si detergevano gli atleti. Se capita accanto a voi il custode Maurizio Tinè vi racconterà che Akrai è stata fondata dai siracusani nel 664 avanti Cristo e che uno dei suoi figli, l’atleta Attilius Telemachus, partecipò ai giochi di Olimpia.

Strana razza i custodi di Palazzolo. Nell’area archeologica regna Ugo Catalano, custode e fondatore della Ugo Catalano film, che produce film in cui recita ruoli surreali dalla comicità paradossale, diffusi in Rete.

La peculiarità di Palazzolo sono i Santoni, statue di divinità scolpite nella roccia calcarea, in fondo a una valletta, che ormai ben poco direbbero del culto di Cibele a cui sono dedicate, se non fosse per la raffigurazione che ne ha lasciato nel 1777 il pittore francese Jean Houel. L’artista le ha immortalate ed ha tramandato scritta la testimonianza di come fossero oggetto di noncuranza e distruzione. La furia iconoclasta si è condensata nella leggenda del contadino ignorante che, infastidito per i danni arrecati all’orto dai visitatori colti di tutta Europa, le ha sfregiate a colpi di martello.

A integrare la ricostruzione fantastica che suggeriscono i resti è necessaria una visita al piccolo e ben ordinato Museo dei Viaggiatori. A Palazzolo il collezionismo è una mania diffusa, e il museo un’aspirazione. Lorenzo Macauda, factotum benvoluto da tutti, ne ha aperto uno di immaginette sacre in due stanzette sul corso.

I musei per la verità sono tutti desolatamente vuoti, sembrano una tavola imbandita di delizie a cui nessuno si accosta, per pigrizia, per indifferenza, per mancanza di immaginazione, per culto dell’ignoranza. Eppure sono lì, “pronti, come dice la soprintendente Rosalba Panvini, a stimolare i sensi dei visitatori, a rendere viva la nostra memoria e la nostra cultura.”

Il problema di Palazzolo, schiacciata tra Noto e Siracusa, è che i turisti, come sintetizza efficacemente il ristoratore Amedeo Maltese, nonostante le potenzialità culturali e gastronomiche arrivano per caso. E tutti i palazzolesi, accecati dall’amor patrio, si dannano perché non ne capiscono il motivo. Tanto è vero che alla Società operaia un vecchietto allegro, che gioca a carte, racconta di quand’era emigrato in Lombardia: “Un brianzolo brianzolo mi rimproverava: hai lasciato il più bel paese d’Italia per venire qui.”

Qui, aggiunge, si dorme con le porte aperte, e l’unico carcerato è stato in galera per sbaglio. “Non per nulla – spiega il sindaco Carlo Scibetta – siamo il paese di Giuseppe Fava. Qui non esiste la mafia, quando hanno tentato di importarla da fuori ci siamo ribellati e abbiamo vinto. Qui è nata la prima associazione antiracket.”

Pippo Fava, assassinato dalla mafia a Catania nel 1984, è sepolto nel cimitero monumentale di Palazzolo. Abbiamo osservato i quartieri, le case, le viuzze e le scalinate attraverso la nitidezza della sua prosa e delle sue immagini dettate da devozione filiale.

Scrisse: “La passeggiata è finita. È quasi tramonto, il cielo è alto, rosso e luminoso ma il paese sembra dolcemente calare dentro l’ombra della montagna, bianco e grigio, con i colori della nostalgia, le grandi chiese, i palazzi antichi, le case pulite dei poveri. Cortese, dolce, amabile, gentile paese mio.”

Si è fatta sera, prima del congedo un’ultima visita al Circolo Judica, una volta casino dei nobili, che dopo un periodo di declino il presidente avvocato Sebastiano Infantino, sta tentando di ravvivare. Gli aneddoti qui si sprecano. Uno riguarda Monica Vitti che da giovane recitava nelle tragedie al Teatro greco, quando ci si alternava con Siracusa. Fu un grande equivoco. Quando Scassapagghiara, addetto all’accoglienza del ricambio quindicinale delle donne del casino locale, la vide scendere dall’autobus tutta imbellettata si precipitò a prenderle le valige. Alle rimostranze dell’attrice, la rimbrottò: “Avanti camina, amunì, camina ca tutti i stissi siti, tutti buttani.”

Sul tavolinetto del Circolo c’è un volume dal titolo curioso “Cent’anni a Monacazzo”, un romanzo storico ed erotico di Giuseppe Rupert Santoro: Giuseppe per battesimo imposto, Rupert per autobattesimo una volta scristianizzato. È professore, scrittore, poeta, libero pensatore, seguace di Diderot, Voltaire e de Sade, mangiapreti, cultore di letteratura erotica latina e greca, di Pietro Aretino e degli scrittori libertini del Settecento francese, devoto di Priapo e discepolo di Micio Tempio.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA