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Bici, click e fantasia, Giada in fuga dalla banalità

Di Leonardo Lodato |

Come una moderna valchiria che, sulle note imponenti di Richard Wagner, parte a cavallo della sua bicicletta, supera lo Sretto di Messina, punta dritto alle Alpi, e conquista il suo piccolo spazio vitale tra le nebbie del Rheingau. No, non stiamo scrivendo una nuova sceneggiatura basata sul Götterdämmerung. Stiamo solo tentando di entrare, nei limiti del possibile, dentro la vita di Giada Contina, dalla sua “fuga” siciliana, all’oggi. Un presente fatto, soprattutto, di immagini in bianco e nero, di musica, di sogni infranti, di cocci ricomposti nei quali, un po’ come usano fare i giapponesi, le ferite si vedono, si devono vedere per forza quasi a simboleggiare quel percorso sofferto che porta alla rinascita.

Partita dalla Sicilia come una crisalide con la valigia troppo carica, Giada, metro per metro, chilometro dopo chilometro, ha snellito il bagaglio dei ricordi, ha riveduto e corretto i suoi sogni. E oggi, eccola ancora, come una farfalla, scorrazzare con la sua bici e con la macchina fotografica pronta a catturare ogni segnale di vita intorno a lei.

«La prima cosa che mi si chiede – dice Giada Contina – è perché sono venuta qui. Risposta semplice: difficoltà a trovare lavoro e ancora una grande crisi familiare pregressa che mi aveva fatta ritrovare sola e senza una casa. Già in Germania da un anno e una volta riuscita a staccarmi dal mio ex (con cui, da Catania, ero venuta qui), ho trovato casa in questo paesino del Rheingau, dove è ri-cominciata la mia vita. I primi tempi in un paese straniero sono duri, se non hai un soldo e devi integrarti. Ho lavorato come “donna delle pulizie” per arrogarmi il diritto di studiare la lingua in una buona scuola, finché non sono riuscita a trovare lavoro in albergo. Era ancora notte quando uscivo per prendere il treno, ogni giorno. Mezz’ora di tragitto in compagnia di un buon libro. Alle 8 del mattino avevo già finito il turno e correvo a scuola per 4 o 5 ore. Una delle prime cose accadutemi nel nuovo paesino è stata l’introduzione nella mia vita di due figure significative, entrambe lo stesso giorno: una mountainbike old school anni ’90, comprata al mercato delle pulci per 30 euro, e un uomo. Lothar. Con lui, molto più anziano di me, è cominciata subito una bella storia, fatta di una sensibilità “antica” e di un’intesa incoraggiata da passioni comuni e da una complicità fuori dal comune. In breve (davvero in tutti i sensi) sono stata lasciata da Lothar, non appena appreso della gravidanza avanzata della sua ex. “Lei ha bisogno di me”. Queste parole, come tizzoni roventi, mi si sono impresse nella carne viva, in quel momento. Ho pianto per tre interi giorni».

E allora cosa hai fatto?

«La vita era diventata pesante. Il lavoro, senza uno spiraglio di luce, incontrando solo gente che usa 100 parole per non dire niente, senza rispetto e senza cultura. Non trovavo punti d’incontro. Ero la donna delle pulizie, quella che non capisce la lingua e che, quindi, non capisce niente (peccato che prima di montare al lavoro, alle 5,30, avevo già letto capitoli su capitoli di narrativa tedesca e avrei saputo recitare a memoria poesie di Goethe o raccontare loro di Clemens Brentano e della letteratura romantica…). È cominciata da lì la mia solitudine. In mente il sorriso di Lothar, che mi dice “scrivimi una poesia” (lo aveva detto davvero, una volta. Non lo avevo mai fatto. Conoscevo davvero pochissimo il tedesco ma, non so come, 10 minuti dopo, la poesia era scritta».

Quindi, a integrazione della tua biografia, sei diventata anche una poetessa?

«Forse è stato quello l’incipit. Non avevo mai avuto desiderio né ambizione di scrivere poesie. Per lo più mettevo su carta i miei pensieri, che, in un modo o in un altro, spesso prendevano pieghe poetiche… E poi quella frase, secca e lontana dal cuore, “lei ha bisogno di me”… La rabbia (le legittime fasi dell’elaborazione del lutto). Ho detto a me stessa (sapendo di mentire un po’): “Io non ho bisogno di te”. Ed ho cominciato a vivere».

E qui comincia il tuo lungo viaggio…

«Ho deciso di espandere le mie conoscenze, geografiche e culturali – nel mio piccolo, certamente – ed ho cominciato a “viaggiare leggera”. Eliminata l’impugnatura della macchina fotografica e rimpiazzata con la tracolla. Con la mia bici, Joanne 2 (altrimenti conosciuta come Juanita segunda), mi sono spinta sempre oltre… oltre i miei limiti».

E quali sono i tuoi orizzonti?

«Ho esplorato il Rheingau e parte della Renania, al di là del Reno, in tutte le stagioni, sempre sola, in sella a Joanne 2 e con Alphonsa (la fotocamera) sempre a tracolla. Con me portavo un’agendina o un quadernino e una penna. Il ricordo più forte che ho è il silenzio. Il perdersi in quel “nulla” in cui il tuo “nulla” diventa il tuo cuore che batte, il tuo respiro affannato e denso di calore, nel freddo glaciale delle colline bianche, a -10°, magari… Ascoltare tutto questo per poi ritrovarsi sul cammino di S. Giacomo (S. Jakobus)…».

Scrivi: «Questo posto non mi ha mai tradita e, in quegli scarponi infangati, ho sempre ritrovato la via…».

«Un’esperienza (di vita vissuta) da condividere può avere l’energia intrinseca di un viaggio vero e proprio e regalare al nostro interlocutore emozioni in grado di scuotere, far riflettere, svegliare… “10 viaggi”, così si intitolerà il mio prossimo libro, in cui racconterò le mie impressioni sulle vite di dieci musicisti italiani che avranno acconsentito a condividerle con me. Attraverso l’Italia, trascorrerò un po’ di tempo con ognuno di loro, a casa propria, per conoscere le persone racchiuse in quei gusci d’artisti… Un tuffo nella vita – straordinaria – di qualcuno: questo sì che è un viaggio!.  Alcuni di loro hanno già acconsentito, ma ti ho svelato un segreto in anteprima…».

Se dovessi rivolgere una domanda a te stessa per spiegare il tuo cammino?

«La domanda che, pensando a Marzullo, rivolgo a me stessa è: “Perché fotografo?”. E qui diventa difficile. Ho parlato di solitudine. Ebbene non è lo stare sola, ma il sentirsi sola, la vera solitudine. E il sentirsi soli è la mancanza di condivisione (la frase più bella, più vera, nel mio film preferito “Into the wild”, di Sean Penn, che racconta la storia di Christopher McCandless, è: “Happiness is real only when shared”). Come in tutto il resto, anche nella fotografia il mio linguaggio più sincero è quello che non mira a voler convincere nessuno. Non serve proprio a niente sgolarsi per far sentire la propria voce a chiunque. Comunque non ne varrà la pena. Se qualcuno è interessato a ciò che hai da dire ti ascolterà anche se sussurri. Così, le mie immagini sono semplicemente una sbirciata attraverso la toppa sul mio mondo. Spesso racchiudono un istante. A quell’istante corrisponde un odore, una melodia, un’emozione, per me, fatta di tutto ciò. Le parole vengono fuori da lì, anche quando quelle emozioni le porto a casa, la sera».

“Da sola, contemplo i miei ricordi, universi paralleli. Realtà poca, da sola danzo una musica che è solo mia, faccio l’amore da sola, con le mie inquietudini, mia profondità, irrinunciabile perversione”. Danza, amore, inquietudine, perversione. Quale o quali di queste parole ti appartengono di più, e quali significati assumono nella tua “arte”?

«In pratica avevo usato un modo elegante per dire che mi faccio delle seghe mentali… Quelle parole mi appartengono tutte, in effetti, legate ad esprimere quel concetto. Prese singolarmente possono aprire varchi su dimensioni ancora più profonde da esplorare. La danza ha fatto e fa parte della mia vita. Nonostante abbia smesso di studiarla da anni, ho maturato solo di recente la facoltà di viverla come mezzo d’espressione. Naturalmente non si può riassumere in una frase tutto il mondo che c’è dietro (e dentro), ma credo comunque che sia una salvezza per chi, come me, ama profondamente la musica e non trova altro modo di interagire con essa. La cosa incredibile della danza è che, diversamente da quanto si può pensare, coinvolge molto di più la mente e lo spirito piuttosto che il corpo. E qui risiede la libertà di danzare sempre, ovunque. Amore. Amare. Il verbo (parola). Comandamento, necessità, unica risposta e unico bene da offrire. Declamato, creduto, contraddetto, rinnegato, interpretato, ri-interpretato, tradotto, dichiarato, cercato, supplicato, sognato, sospirato, desiderato, conosciuto (?), sofferto, dimenticato… (uff…!). Sì, ce n’è tanto nella mia vita. Ma la sfilza di parole scritte sopra non c’entra.  Chiaro, sono tanti, troppi, gli spunti che offre questo nome per creare poesia, sia fatta di parole, di immagini o di qualunque altra sostanza. “Che coss’è l’amor” canta Capossela… Ecco, l’Amore è Bellezza. È qualcosa di troppo grande per credere di conoscerlo e accontentarsi della prima, della decima o della millesima risposta, alla sua domanda. L’unica perversione che conosco credo sia proprio quella di confrontarmi con le mie inquietudini. Ma so benissimo che queste vanno sgretolandosi col tempo, che io sono molto più forte di loro e la mia forza non può che crescere con me. Arrabbiarsi, litigare, provare risentimento, gelosia, invidia, rancore… succede. Mi succede, ancora. Ma ci sto lavorando. Alcune persone mi stanno insegnando tanto, anche inconsapevolmente. Osservandole sto imparando a seguire la mia strada voltando le spalle alle inquietudini. Molto meglio guardare le stelle e avere sempre un sogno. Avere sempre un sogno… (per rispondere a un’altra tua parola-domanda) questa è la mia felicità. Nonostante il lavoro in hotel non sia leggero per niente, negli ultimi mesi ho trovato una grande energia per arrogarmi quel posto nel “mio mondo”, fuori dal quotidiano. Ho una vera e propria “doppia vita” ed è la mia linfa vitale. Di giorno lavoro. Di notte scrivo… medito, dipingo, danzo, fotografo e, ancora, viaggio… Continuerò a raccogliere fango, sotto le mie scarpe, a guardare le stelle e ad addormentarmi su un quaderno bianco con la penna in mano… e sarò sempre felice…».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA