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il ricordo

«Ciao, io sono Laura»: la carezza di una persona indimenticabile

Quel blitz in corsia fra sudore e pianti. E la sua “lezione”: «Voglio realizzare tutti i miei sogni»

Di Mario Barresi |

Laura non c’è. Non c’è più. E solo chi l’ha conosciuta – davvero – può avere contezza della voragine a cui ci ha condannati.A partire da quell’ultima telefonata, qualche tempo fa: una scusa per sentirla con le scuse per l’assenza alla sua laurea. «Come stai? Ti sento stanco…», sussurra con meno di un filo di voce. E poi, ancor più fioca, ma stentorea nella sua risolutezza: «Ma sei sicuro che stai girando dalla parte giusta? Fermati un attimo e rispondi, da solo con te stesso, a questa domanda».

Ecco cos’è Laura. Un meraviglioso pugno allo stomaco. La testimonianza vivente – sì, perché lei ci sarà sempre; anche per chi non crede – di quant’è meschino e inutile il nostro logorio quotidiano. Le cose minuscole che giganteggiano nell’esistenza di chi non ha ancora capito cos’è la vita. Lei era – è – un inno all’essenza del vivere. Rivendicando, con negli occhi una luce che ti abbagliava, «il diritto di essere felice», di potere «scrutare ancora la bellezza della vita», perché – questa è stata la sua lectio magistralis e ora diventa il testamento morale che ci lascia – anche se «mi trovo a vivere come in un oceano in tempesta, con onde e fulmini che si abbattono da tutte le parti, sono ancora a qui lottare». Perché lei, in fondo, voleva «ardentemente vivere».

Scorrono rapidi, in queste ore, i ricordi di quell’estate del 2010. Le prime notizie frammentarie della «studentessa ferita da una pallottola sparata da un pazzo», la corsa a piazza Dante, i racconti dei testimoni, le telefonate al Garibadi per sapere se ce l’avrebbe fatta. Risuona la voce commossa di quel galantuomo di Sergio Pintaudi, primario di Rianimazione, che di tragedie ne aveva vissute a centinaia: «Pallottola e schegge estratte, ma la situazione è critica, forse non camminerà più». E poi quella vigilia di ferragosto. Quando il giovane (allora) cronista andò a trovarla a Montecatone, all’istituto di riabilitazione. Infiltrato speciale grazie alla complicità di un altro angelo protagonista di questa favola horror: l’indimenticabile Antonio Gulino, fidanzato di Laura, che ci avrebbe lasciati (noi e la sua amata Laura) molto prima del tempo che era giusto.

Unico bagaglio a mano: una padella. «Me l’ha chiesta la mamma di Laura, per cucinare». Arrivammo. «Lui è un parente», disse all’ingresso con lo sguardo complice di mamma Enza e papà Nino. Entrammo. Per pochi lunghissimi minuti. «Ciao, io sono Laura», si presentò a quello che per lei era un estraneo. Chiese ad Antonio notizie su Shona, la loro cagnetta. Parlava a fatica. Ma ogni sillaba era una pietra. Sul folle che le aveva sparato: «Ho saputo che l’hanno arrestato, se penso a lui provo tanta rabbia, ma non odio». Sulla città che l’aveva adottata e tradita: «Ci tornerò, voglio viverci: ci sono tante persone perbene».

E sulla sua passione più grande: la vita. «Voglio laurearmi, realizzare tutti i miei sogni». Il cronista non riuscì a trattenere la commozione. E fu lei, stesa in una sala di rianimazione con la certezza di non poter mai più camminare, a consolarlo: «Ma che fa piangi? Ti piacciono i Deep Purple? Fallo per me: ascolta “Child in Time”…». Poi una carezza, la pelle liscia che sfiorava un braccio fradicio d’emozioni. E quella foto (la ripubblichiamo, accanto a sinistra) scattata con la mano tremante. «Oggi mi sono pure truccata per te…».

La sua richiesta musicale fu esaudita – il taccuino vuoto e la mente zeppa – all’uscita dall’ospedale. All’epoca c’erano gli Mp3. Questa, più o meno, la traduzione del refrain dall’inglese:Dolce bimbo nel tempo tu vedrai il confine/il confine tracciato tra il bene e il male/ Osserva l’uomo cieco sparare al mondo/ proiettili vaganti esigono un tributoIl tributo di Laura. Il ritorno a Catania, la degenza al Cannizzaro, la nuova casa attrezzata, l’idea del “diario” sul nostro giornale, poi diventato – grazie alla straordinaria cura, in tutti i sensi, di Giuseppe Di Fazio – un libro. “Una forza di vita”, naturalmente, il titolo. In quelle pagine i contatti con un ergastolano “convertito”, l’impegno per il quartiere dei Cappuccini, la simbiosi con suor Maria Cecilia, che la chiamava «fata di luce».

E aveva ragione. «A chi mi chiede se valga la pena vivere in queste condizioni – scrive Laura – rispondo: ognuno di noi ha un percorso da seguire e credo che nulla accada per caso. Io, per quanto posso, guardo in faccia la sofferenza e, nonostante essa sembri essersi cucita addosso a me, ogni mattina quando mi sveglio mi ritrovo una letizia nel cuore. Sono circondata da persone che mi vogliono bene, non mi sento tradita dalla vita».

Sfogliarlo disseppellisce i ricordi. Fra le pagine anche il racconto di quel 14 agosto. «Mi hai fatto piangere, quando l’ho letto, lo sai? Adesso però – disse tornata a casa – siamo pari…». .No, cara Laura, hai vinto tu.m.barresi@lasicilia.it

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