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Pachino, nella “serra” dei boss la speranza non è stata sciolta

Di Sergio Taccone |

Pachino (Siracusa) –  La mafia a Pachino: presenza indubbia che si manifesta in varie forme che toccano pesantemente numerosi gangli del tessuto socio-economico e produttivo della capitale del pomodoro, prodotto che ha creato negli anni una ricchezza che ha attirato gli appetiti della criminalità organizzata, in un comprensorio dove la droga scorre a fiumi. Il 2019 si è aperto con lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose, sancito dal decreto del presidente della Repubblica. Il punto più basso, un’onta indelebile per un ente già alle prese con pesanti situazioni debitorie e quasi a rischio di default finanziario.

L’ex sindaco Roberto Bruno, storico di formazione e docente di un istituto superiore della provincia di Catania, chiamato in causa nella relazione allegata al procedimento di scioglimento dell’ente per comportamenti “omissivi”, ha già detto di voler ricorrere al provvedimento, non smentendo i fenomeni mafiosi presenti nel territorio ma non senza distinguo. «La stragrande maggioranza dei miei concittadini, – ha affermato – sono persone oneste. Chi mi conosce bene sa quanto ho dato a questa comunità nei cinque anni di guida della città e sanno da che parte sto e sono sempre stato: quella della legalità. A Pachino e Marzamemi c’è una comunità che lavora con sacrificio, grande onestà, impegno quotidiano e passione. Sul provvedimento di scioglimento faremo valere nelle sedi opportune le nostre ragioni. Né io né miei assessori o componenti della mia maggioranza siamo stati chiamati causa nell’indagine prefettizia».

Giada Farè, presidente del Centro commerciale naturale di Marzamemi, che raggruppa numerosi commercianti operanti nel borgo turistico, fiore all’occhiello del Sud-Est siciliano, rifiuta l’immagine di Marzamemi come covo di boss, sede di summit e traffici internazionali. «Il nostro obbligo, come imprenditori – afferma – è rispettare la legalità nel nostro lavoro e il Consorzio si adopera anche per promuovere la cultura della legalità nell’impresa. Non è nostro ruolo e competenza riconoscere, inseguire, arrestare mafiosi. Possiamo garantire che, se fosse a conoscenza di fenomeni di contatto tra la mafia e le nostre imprese, il Consorzio si adopererebbe per combattere questa piaga. Non abbiamo mai visto summit mafiosi su barche a largo e nemmeno traffici internazionali nelle viuzze. Ci sono a Marzamemi attività legate alla mafia in modo provato? Che siano chiuse. Noi saremo qui – prosegue Giada Farè – a supportare ogni azione antimafia condotta senza pregiudizio e senza ambiguità, in una Sicilia in cui è sempre più difficile orientarsi e in cui da un giorno all’altro crollano miti dell’antimafia. In una Sicilia in cui basta il fumus, il sospetto svincolato dalla valutazione della magistratura, per punire comunità e spezzare vite, come nel caso del nostro collega Rosario Greco, imprenditore antiracket, intrappolato in una sconcertante vicenda giudiziaria, colpito da interdittiva antimafia e suicidatosi recentemente perché senza lavoro». La responsabile del Centro commerciale naturale Marzamemi ha invitato, il 12 aprile, giornata della legalità, il giornalista Paolo Borrometi a Marzamemi per un confronto sui temi della legalità e della responsabilità. «Siamo certi che condividerà con noi la convinzione che il sospetto non può sostituire le sentenze. E non viviamo sulla luna, consapevoli del fatto che il nostro territorio non faccia eccezione rispetto al resto del Paese quanto a presenza mafiosa».

Sebastiano Mallia, avvocato e coordinatore di un movimento socio-politico, cerca di riannodare i fili di un percorso della memoria. «Dopo lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, ho ripensato al crinale drammatico che Pachino ha vissuto fra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Periodo in cui Pachino fu teatro di una scia sanguinosa di omicidi che portarono alla ribalta una vera e propria guerra di mafia, di fronte alla quale, senza nulla togliere alla gravità dei fatti accaduti oggi, questi ultimi si rivelano un po’ più pallidi. Molti ricorderanno anche le bombe del racket. Quella guerra e quell’esplodere del fenomeno estorsivo non erano affatto solo pachinesi: tutta la provincia ne fu teatro, fino al capoluogo». Anni in cui a Pachino si uccideva in piazza Vittorio Emanuele, in cui sparirono persone, inghiottite probabilmente dalla lupara bianca, saltarono saracinesche, «non tralasciando – ricorda Mallia – delle rapine con sequestro di alcuni commercianti, una delle quali vissuta molto da vicino. Pachino reagì con forza e vigore, nacque l’Associazione pachinese anticrimine che fu una delle prime realtà antiracket ed usura dell’epoca in provincia. Di essa sono socio della primissima ora ed essa lotta ancora, nei processi, assieme alle vittime, mentre la Regione, oggi, nega i soldi per le sue manifestazioni. Reagì con forza anche lo Stato sgominando buona parte dei clan che si contrapposero allora fra loro. La pianta dell’alloro va sempre innaffiata e nutrita sennò appassisce».

Una città in ginocchio, economicamente ed istituzionalmente. Alla crisi del settore produttivo, con l’agricoltura ben lontana dai fasti d’un tempo, arrancante non soltanto a livello di piccole realtà, il 2019 registra il punto più basso anche in ambito politico e amministrativo. Dalle motivazioni dello scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose è uscita una realtà devastante. «Sono state accertate – afferma lo studioso pachinese Sebastiano Lupo – forme di ingerenza della criminalità organizzata, che hanno esposto l’amministrazione a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale. Ed ancora, è stata rilevata la permeabilità dell’ente ai condizionamenti esterni della criminalità organizzata e ciò ha arrecato grave pregiudizio agli interessi della collettività e ha determinato la perdita di credibilità dell’istituzione locale».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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