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Le politiche green dell’Europa e i grandi conflitti di interesse delle società di consulenza

Di Redazione |

«La sfida più grande in questo nuovo secolo è quella di adottare un’idea che sembra astratta: lo sviluppo sostenibile» Con questa dichiarazione il settimo segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan inaugurò il terzo millennio. La sfida è un imperativo per tutti i Paesi del pianeta da quasi 30 anni: per ridurre le emissioni di Co2 devono fare tutti le stesse cose. La sostenibilità invece è diventata un obbligo molto concreto, con l’adozione di modelli produttivi meno impattanti, consumi più consapevoli, riciclo delle materie prime, protezione ambientale ecc. Chi deve trovare il punto di equilibrio nell’adozione di pratiche responsabili e a lungo termine sono i governi, che però devono fare i conti con le resistenze dei grandi inquinatori, con le imprese che devono adeguarsi a standard virtuosi, e quelle dei cittadini abituati a consumare come se non ci fosse un domani. È cruciale quindi che ogni decisione sia presa a seguito di studi rigorosi e indipendenti, anche perché siamo già in ritardo e la natura è indifferente alle nostre miserie. A indicare obiettivi e strategie ai Paesi dell’Unione, è la Commissione europea, che per fissare degli standard praticabili deve studiare gli impatti sulle emissioni di tutti i settori produttivi, sul consumo di risorse, sul riutilizzo delle materie prime, sulla produzione di combustibili fossili, sull’agricoltura. Per fare questo serve personale altamente specializzato, che la Commissione europea non ha. Per questo l’Europa, come tutte le istituzioni internazionali, si rivolge a consulenti esterni, che però non sono soltanto, come sarebbe logico pensare, le Università o i centri di ricerca. E allora vediamo come funziona questa macchina che dovrebbe portarci verso un futuro più green.

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I costi in aumento e il «piede in due staffe»

Per consulenze di tutti i tipi, in sei anni l’Ue ha speso oltre 5 miliardi. Tra gli ambiti nei quali si ricorre di più alle consulenze c’è proprio quello della tutela dell’ambiente e della lotta al climate change: dal 2014 la Direzione generale Ambiente ha distribuito incarichi per oltre 200 milioni di euro (80 solo nel triennio 2017-2019), mentre all’Agenzia per il clima (Cinea) – nata nel 2021 per gestire progetti strettamente legati alla lotta al cambiamento climatico – gli esperti esterni sono costati in un anno 52 milioni di euro.

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Il tema, scrive la Corte dei conti europea, è che gran parte delle società di consulenza lavorano non solo per chi scrive le regole (in questo caso l’Ue) ma anche per chi deve rispettarle, poiché forniscono alle aziende i consigli per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità e ottenere le certificazioni, comprese quelle ambientali.

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Il ruolo politico e quello privato

L’Ue assicura: le consulenze sono importanti per avere un contributo tecnico, ma le decisioni le assumiamo in totale autonomia. Però gran parte delle consulenze si concludono proprio con dei consigli su quali politiche adottare. Ad esempio, nel 2021 la Ramboll Management Consulting viene pagata oltre 200mila euro per realizzare un report sull’adattamento degli edifici al cambiamento climatico (nell’ambito del programma Life). Come viene spiegato fin dalla presentazione, lo studio contiene «strategie per i decisori politici» come quella di fissare degli standard per prevenire il surriscaldamento degli edifici e suggerisce quali sono le soluzioni migliori per realizzare edifici resistenti agli eventi climatici estremi. Contemporaneamente, attraverso il proprio sito web, la Ramboll si propone ai privati per la costruzione di edifici sostenibili e resilienti «agli shock come le condizioni meteorologiche estreme». La stessa cosa vale per il progetto di valutazione dell’impatto ambientale che i sistemi di guida automatizzata avranno sul trasporto pubblico europeo: a coordinare il progetto (al costo di 720mila euro) è stata chiamata la, che nel frattempo collabora con aziende del settore mobilità come Mercedes, e quella di componenti per automotive Thinkz e Mahle. Ma la rete di collegamenti tessuta dai consulenti, non sempre è così palese. Un esempio è la Task Force on Climate-related Financial Disclosures (Tcfd), il gruppo di esperti che ha sviluppato il criteri attraverso i quali le aziende possono misurare il proprio impatto ambientale e che l’Europa ha reso obbligatorio per le società quotate e quelle con più di 500 dipendenti. Della Tcfd – che dopo aver assolto il suo compito si è sciolta – hanno fatto parte i soci delle big mondiali della consulenza (Deloitte, Kpmg, Pwc, Ernst&Young), che hanno subito lanciato servizi per assistere le imprese che devono adeguarsi al sistema di rendicontazione.

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Strategie ambientali e bilanci certificati

Negli ultimi anni, le più importanti società del settore fanno della lotta al climate change una bandiera anche perché – stando a uno studio diffuso da Kpmg – quest’anno il mercato delle consulenze sulle emissioni-zero già vale 5,5 miliardi di dollari e nel 2028 sfonderà quota 15 miliardi. Ma la loro principale fonte di incarichi non è certo l’Ue, bensì le grandi aziende private, inclusi i più grandi inquinatori del pianeta. Un’inchiesta del New York Times del 27 ottobre 2021 ha messo in risalto come la Mc Kinsey abbia guadagnato centinaia di milioni di euro consigliando come tagliare i costi e aumentare i profitti ad almeno 43 tra le 100 aziende che inquinano di più, soprattutto nel settore di gas e petrolio. Lo stesso si potrebbe dire per le collaborazioni con le multinazionali del fast fashion, il cui sistema produttivo usa e getta sta generando un grave impatto ambientale (vedi Dataroom del 10 gennaio): il gruppo spagnolo Inditex – che detiene brand come Zara, Stradivari e Oysho – rendiconta secondo le raccomandazioni Tcfd e affida la revisione a Ernest ad Young; mentre Deloitte controlla i conti di H&M, alla quale certifica anche la conformità dell’informativa sulla sostenibilità.

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Competenze «a senso unico»

Non c’è nulla di illegale in tutto questo, e le società di consulenza assicurano di seguire rigidi protocolli per tenere ben distinti gli interessi dei loro clienti, che siano pubblici o privati. Ma la Corte dei Conti sottolinea che i contratti sottoscritti con l’Europa prevedono clausole standard che si riducono a «controlli formali, che da soli non possono garantire la gestione dei rischi di conflitti di interesse». Inoltre, entrando nella «stanza dei bottoni» i consulenti esterni acquisiscono informazioni e quindi nuove competenze. Ma questo funziona a senso unico: nessuno dei contratti esaminati dalla magistratura contabile include «una condizione specifica per il trasferimento delle competenze dai consulenti al personale della Commissione». Il risultato è che si crea un meccanismo di dipendenza da queste società che costringe a rinnovare continuamente i bandi, poi vinti sempre dagli stessi: il 53% dei soldi spesi in consulenze dalla Direzione generale dell’Ambiente sono finiti ad appena 10 soggetti (sui 117 che lavorano con la Dg), cioè quelli che nel frattempo sono diventati più competenti.

La Commissione non valuta sistematicamente la performance dei propri consulenti esterni

Le porte girevoli

Una volta dentro i palazzi europei, il colossi della consulenza si portano via i migliori manager, offrendo stipendi non comparabili con quelli pubblici. Ogni anno 400 dipendenti dell’Ue, subito dopo essersi licenziati, chiedono l’autorizzazione a esercitare un’attività professionale potenzialmente a rischio di conflitto d’interesse. Lo dice il Mediatore Europeo, che esorta la Commissione a un «approccio più deciso» (quindi a dire qualche «no» in più) anche perché non c’è «alcuna misura (…) per monitorare il rispetto dei propri obblighi da parte degli ex dipendenti». La Corte dei conti dice anche un’altra cosa: «La Commissione non valuta sistematicamente la performance dei consulenti esterni», e quindi è difficile dire quale sia il loro vero valore aggiunto. Solo il tempo ci dirà se l’obiettivo di arrivare a un’Europa a impatto climatico zero entro il 2050 sarà rispettato, grazie alle politiche elaborate anche con i loro consigli. Nelle scorse settimane è però uscito il primo grande rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente che segnala «lacune critiche» e «incoerenze nelle politiche esistenti» della lotta al climate change. Infine la Corte rileva che l’Ue ha sovrastimato i propri investimenti all’interno del bilancio all’azione per il clima, inserendo iniziative che nulla hanno a che fare con gli obiettivi di sostenibilità.

I paradossi e le ricadute

Nel 2022 la Commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento Ue incarica il Centre for Strategy & Evaluation Services (Cses) di Dublino di analizzare come la Commissione utilizza le società di consulenza. Le conclusioni del Cses (che nel corso degli anni ha ricevuto incarichi dalla Commissione europea per 4,4 milioni di euro) sono le seguenti: «Vi è margine per migliorare alcuni aspetti» ma nel complesso «i sistemi sviluppati dalla Commissione per l’utilizzo di consulenti a sostegno dell’elaborazione delle politiche sembrano funzionare bene». Ovvero, per l’oste il vino è sempre ottimo. Un meccanismo che sta portando a un continuo impoverimento di competenze all’interno della pubblica amministrazione Ue, nelle grandi istituzioni internazionali, fino ai ministeri dei singoli Paesi. I migliori dirigenti non vengono certo incentivati, al contrario lo spoil system impone un continuo ricambio, e il criterio di reclutamento è il livello di fedeltà a questo o quel partito, quasi mai il grado di esperienza e conoscenza nel settore che dovranno dirigere. Tanto c’è sempre una lunga schiera di consulenti a dirti cosa devi fare. Basta pagarli. Se poi le indicazioni sono contrarie all’interesse pubblico, ma la mancanza di competenza non consente di accorgersene, non è colpa di nessuno.

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