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Renzi a Ragusa: «Qui qualcuno ha votato Forza Italia?» E la signora: «Mincia, cinu cinu è»

Di Mario Barresi - Nostro inviato |

«Vabbe’ che a Ragusa un presidente del Consiglio non veniva da tempo immemorabile, ma non sono giustificato per avervi fatto aspettare». Renzi plana nel secondo capoluogo grillinizzato d’Italia dopo Parma, beccandosi un po’ di fischi per le due ore di ritardo. Il presidente, come sempre scortato dal sottosegretario Davide Faraone, sale subito sul palco, chiede scusa e comincia un comizio-show che sarà applaudito. Parla nella stessa città scelta da Bersani per l’esordio nel tour del No, ma davanti a molta più gente. «Io sto con Pier Luigi, ma sono qui perché c’è il segretario del mio partito, che non dev’essere del fuori-fuori, ma del dentro-dentro», dice la vicesegretaria del Pd ibleo, Angela Barone. «E ho pure dato una mano per organizzare tutto qui», aggiunge. Giustificando l’assenza del segretario Gianni Battaglia «impegnato in un altro evento per il No».

Ma Renzi non ha né tempo né voglia di sottilizzare. Soprattutto in Sicilia, dove i sondaggi danno il “Sì” molto indietro rispetto al 56-57% del fronte opposto. E sa pure che, visto il numero di elettori, cambiare verso all’Isola potrebbe essere decisivo per il risultato nazionale. E quindi ritornerà per l’ennesima volta in una delle regioni swinging del referendum, persino nel giorno di chiusura della campagna elettorale: il 2 dicembre, al Bellini di Catania e al Massimo di Palermo. Lo stesso Renzi dice dal palco: «In Sicilia siamo in difficoltà nei sondaggi? Ma se io fossi siciliano avrei un motivo in più per votare Sì, perché se c’è un posto dove cambiare, dopo tanti anni di classe dirigente non all’altezza di una terra meravigliosa, questa è la Sicilia. Dovete cambiare!». Annuisce il segretario regionale Fausto Raciti, assente al “Guido Tersilli Show” di Catania anche per arrivare in tempo a Ragusa.

Vincere a tutti i costi. Senza la puzza sotto il naso. E dunque ben venga la carica degli ex forzisti del faraoniano-cardinalizio Dipasquale, ma anche la parte di auditorium non proprio di gauche composta da consiglieri, uomini di sottogoverno ibleo, manager della sanità vecchi e nuovi (Alfredo Gurrieri e Maurizio Aricò) e imprenditori, fra i quali Giorgio Ragusa, presidente di Conad Sicilia, e il noto ristoratore Pinuccio La Rosa. In seconda fila c’è Giorgio Cappello, presidente regionale della “Piccola” di Confindustria, orgoglioso di essere stato «fra i due siciliani, assieme a Montante, ad aver votato il documento nazionale a sostegno di una riforma che può davvero cambiare il Paese».

Renzi sa come prendersi gli applausi iblei. Cita Giorgio La Pira come «un mio modello» e si prende pure l’applauso del sindaco di Pozzallo. Che, sentendosi abbandonato sull’emergenza migranti, in estate al premier mandò a dire: «Le porte del municipio per lui sono chiuse». Adesso Luigi Ammatuna è orientato a votare Sì, «perché non mi piace l’accozzaglia di gente che c’è dall’altra parte». Pur precisando: «Con Renzi, però, ancora seccato sono». Intanto Matteo annuncia opere a raffica: «Faraone mi ha fatto provare le strade siciliane. Lo ha fatto perché domani firmiamo il patto di progetto, anche per migliorare la Ragusa-Catania. Peggiorarla è difficile…». Poi soldi per l’aeroporto di Comiso e per la metropolitana di superficie Donnalucata-Ibla «finanziata a un sindaco 5stelle nel segno del rispetto istituzionale». Federico Piccitto, ovviamente, non è presente a un evento politico e non istituzionale. Ma in sala il sindaco grillino è rappresentato dall’assessora alla Cultura, Nella Disca, da semplice osservatrice.

Magari anche lei sarà scappata una risata quando il presidente del Consiglio si trasforma in un Roberto Benigni in giacca e cravatta. Balzella sul palco, sfotte Grillo sull’affitto ai Musei Vaticani e Di Maio sul Pinochet venezuelano. Sfoggia l’ormai classico repertorio siciliano: dalla «lezione di umanità e dignità» sui migranti alla scelta di Taormina per il G7 «contro lo stereotipo della mafia», fino alla «vera preoccupazione per l’altro Matteo, che non è Salvini ma Messina Denaro: lo prenderemo». E dialoga col pubblico: «Lei signora quanti comitati ha fatto?», chiede a una che esulta gridando «finalmente!» alla cancellazione del Cnel, che «non è il Ccnl, il contratto di lavoro, come sembrava a un’elettrice che pensava fossi contro i sindacati». Fa pure le imitazioni, Renzi. Un Salvini roco, eccitato per l’elezione di Trump («ma tu hai vinto a Gallarate, non nel Wisconsin», battuta riciclata dal salotto di Fabio Fazio), un D’Alema antipatico in falsetto che minaccia «adesso torno io». Una «ansia da sindrome dei giardinetti», la chiama il premier. Che rassicura sul proprio destino in caso di sconfitta: «Non vi preoccupate di quello che farò io dopo… la vita è bella anche fuori dalla politica».

Sarà così. Ma anche quando esorcizza i sondaggi («Negativi? Magari: portano male»), si capisce che Renzi, a partire dall’Isola, sa di giocarsi tutto: «I 20 giorni che mancano al referendum li aspettavamo da vent’anni. Stavolta c’è davvero la possibilità di cambiare il futuro», dice. E la Sicilia, il 4 dicembre, potrebbe essere il Michigan o l’Ohio. Bisogna capire se Matteo sarà Hillary o Donald. Ma la vice segretaria dem di Ragusa, Barone, che voterà No, nel suo piccolo rassicura il premier citando Obama: «A prescindere da ciò che accade, giorno 5 il sole sorgerà ancora». Fuori, intanto, non piove più.

Twitter: @MarioBarresi

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