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«Antica sede dei Siculi, nemica di Cartagine Enna fu luogo di stragi orrende e spoliazioni»

Di Giuseppe La Barbera |

«Ogni tanto Enna viene rapita da una nube bianca e avvolta in un limbo di candore accecante. La città è a mille metri sul livello del mare (l’altezza di Cortina d’Ampezzo), e si capisce che a causa di tale condizione i suoi abitanti debbano, di quando in quando, vivere tra le nuvole. Vivere tra le nuvole qui significa esattamente essere rapiti da una nebbia lattea che vi confina in un isolamento quasi totale». Iniziano da Enna le escursioni siciliane a più riprese del critico d’arte di Rovereto, Carlo Belli (1903-1991), figura complessa e aperta a molteplici esperienze, autore di dipinti nei quali si accordano razionalità e lirismo, giornalista e scrittore; era stato tra i fondatori a Milano della galleria del Milione in via Brera, e poi con Bardi e Bontempelli della rivista “Quadrante”. «Aprendo, alla mattina, la finestra dell’albergo che si affaccia sul vallone, vi può capitare di tirarvi indietro con sgomento – continua Belli – una parete opaca e abbagliante sta davanti a voi; un nulla incredibile, fisso in un suo silenzio spettrale. Forse il limbo è così. E adesso che la nebbia si va a mano a mano dileguando, succhiata da un sole già sfolgorante, il paesaggio che appare davanti, ci fa capire come le genti remote che lo popolarono non potessero far altro che dare attribuzione divina alle forme di una natura così strana e meravigliosa».

Visitò Enna, la città nuova, le sue chiese, la sua moderna agorà, si soffermò al lago di Pergusa dove «giunti al fondo del vallone, ci si volta indietro per guardare su la città: ma bisogna saperlo che lassù c’è Enna, altrimenti non la si distinguerebbe, confusa, anzi, fusa com’è nel monte; poiché le sue case sono costruite con la medesima pietra della montagna su cui giace; e se non fosse per il profilo di qualche campanile e per il frontone del duomo, per codesti lapis e per codesto triangoletto, che emergono dal crinale bigio e frastagliato, nessuno potrebbe dire di scorgere, da sotto, l’antichissima sede dei Siculi; centro del culto di Demetra, quando fu greca; la nemica di Cartagine; luogo di stragi orrende quando fu romana; oggetto di spoliazione barbara, quando fu musulmana; soggiorno prediletto, poi, di Svevi e Aragonesi».

Incontra Michelangelo Antonioni che sta girando una scena dell’Avventura, il film che lo impegna «in un continuo alternarsi di sofferenze e di soddisfazioni» e la visione della troupe al lavoro, acquistava un sapore di quadro fiammingo. Ad Aidone entra nello spirito l’immagine di una città antichissima, fiorita molto tempo dopo la sua fondazione in età ellenistica «collocata in una posizione collinosa incantevole, il cui centro era una piazza concernente il monumento più strano e più originale dell’antichità; un anfiteatro esagonale anziché tondo o elittico, e interamente invasato, sicché la parte sua più alta viene a trovarsi al bordo della terra».

Sceso dall’automobile, arrivato a Gela, è attanagliato da una solitudine immensa. «La pianura che degrada incontro al mare africano giace in una inerzia maestosa, non sterile, ma taciturna – scriverà – vi si ode il silenzio della Terra prima che comparisse l’uomo». Trovò la città moderna con un corso «che forse segue l’antico tracciato del decumano maggiore sul quale si allinea qualche palazzotto rococò e settecentesco; ha alcune chiese di stile barocco ritardato o neoclassico, come la Cattedrale»; si inoltrò anche per strade secondarie disposte un po’ a scacchiera, «percorrendo le quali – osservò umoristicamente – si ha qualche volta l’impressione che gli spazzini municipali siano in sciopero fin dalla fondazione della città greca», ma quello che vide ai lati estremi della città, rimase impresso nella memoria: «l’ultima colonna superstite, nella foresta verde, stupenda nella sua elegante, prolungata èntasi; il luogo è deserto e silenzioso. Risentirete quell’atmosfera di Luxor, quel medesimo lento respiro che alita sulle rovine della Tebe egiziana: solenne, ma non pesante, anche se grave di fluidi remoti».

Sprizzate da strette fessure, arrivarono agli occhi violente sciabolate di luce riflessa: «è il Mediterraneo che luccica laggiù, al piede della collina selvosa e fa vacillare il senso della nostra presenza nel tempo». Da una terrazza, spinse lo sguardo in tutte le direzioni, come un falco in mezzo al cielo. «Vedrete la piana dei campi geloi al nord, chiusa da semicerchio delle colline e delle montagne: su vari cocuzzoli, scorgerete gli antichissimi centri italici di Priolo, Niscemi, Bubbonia, Disueri e, a occidente Butera. Tornando con lo sguardo a nord, sullo sfondo lontano, nelle giornate di inverno, vi apparirà la limpida, nevosa e fumante piramide dell’Etna, lontana un centinaio di chilometri, in linea d’aria; sotto, a sud, le foci giallognole del Gela, il fiume sacro, che si mescola con gli azzurri chiari, i turchese e i blu profondi del Mediterraneo, nonché la piccola collinetta chiamata Betlem. Ancora a est: la foresta di Bufala e, piuttosto lontana, il golfo di Scoglitti, presso cui si distinguono, verso Santa Croce, i luoghi sui quali sorgeva l’antica Camarina. È una visione che fa ammutolire e impedisce di descriverla per comunicarla ad altri. Vi sono luoghi che non possono essere descritti».

Osservò le grandiose fortificazioni greche che giacevano sepolte sotto le dune mobili da ventitré secoli. «Uno dei monumenti più cospicui che l’antichità ci abbia lasciato – commentò – vi sembrano mura erette ieri sera, questa mattina. Fresche, colorate, pulite, vive. Il sole le circonfonde di luci fulgentissime, perché i suoi raggi, battendo di striscio su tutti quei vetri protettivi e sulle borchie di ottone che tengono unite le lastre, producono un riverbero di alta magia».

Da Gela a Vittoria percorse agevolmente il tragitto tra vigneti, oliveti e boschi di lecci, fichi d’India, carrubi, su un terreno dolcemente collinoso, e arrivò alla piazzetta di Scoglitti «che è un villaggio di pescatori, posto in uno dei punti più meridionali della Sicilia». Della plaga circostante diede una visione pittorica «in questa confusione di aspetti, il verde, che pure predomina, è morso a tratti, da vaste alopecie sabbiose; l’uomo ha abbandonato il paesaggio all’immane disordine della natura, limitandosi a raccogliere il ben d’Iddio che la terra quasi spontaneamente gli offre. Alture, depressioni, colline, valloni, rendono la plaga anche più aspra, facendo un groviglio di ciò che gli ingegneri chiamano “curve di livello”. Quanto alla strada, si tratta di un nastro bianco, senza asfalto, stretta, polverosa cosparsa di buche e rotta da voragini improvvise. Si va a quindici chilometri l’ora». Al fondo di una valletta cosparsa di verdissimi carrubi, vide d’improvviso l’Ippari famoso; era un fiumarello senza pretese, anzi, di aspetto alquanto dimesso, «lo varcammo su un ponte da nulla, e proseguimmo per la strada che saliva una assai ripida collina. La nostra avventura pareva non avere termine in quelle solitudini selvagge».

Lasciò la macchina lassù per scendere a piedi fino alla spiaggia del mare africano ed era facile per l’immaginazione collocarvi una città ricca di templi, di teatri, di ginnasi. Il mare rumoreggiava sulla città sepolta con voci ritmiche e potenti; rimase seduto sulla sabbia, con la testa tra le mani e pensava che «l’uomo è meno di una farfalla; sarebbero trascorsi altri duemila anni, e il mare, lì, in quel golfo deserto, non avrebbe smesso il suo grido ritmico e potente quasi a salvaguardare il silenzio calato su Camarina».

In altra occasione si recò ad Agrigento, nella valle dei Templi, ed era entrato d’improvviso in «un’orgia di gialli; la campagna bruciata dalla canicola, la breccia calcarea ricca di terre rosse mischiate a sedimenti sulfurei, la pietra dorata dei templi, tutto quanto si vedeva all’intorno era ammantato di giallo, dove chiaro, dove più scuro; e il mare celeste e il cielo azzurro, velati da quel grande riflesso, si facevano entrambi di color verde» e il tempio della Concordia, dove si soffermò, «miracolo dell’arte dorica pervenutoci quasi intatto, esempio insigne dell’architettura sacra d’ogni epoca. Le sue colonne sapientemente rastremate, gli danno come uno scatto fiero, quasi baldanza giovanile in corpo maturo».

Vide Gibellina, «sepolta dall’ultimo terremoto, e già risorta con aspetti addirittura fantaurbanistici, incredibile anticipazione del prossimo millennio!» e attraversò Ribera, «paese che sa ancora di Seicento spagnolo»; poi a Sciacca, «signora di un mare stupendo che essa domina un po’ dall’alto. I suoi palazzotti offrono una collezione di portali pregevoli» e a Menfi, «paese dall’aspetto afro mediterraneo; una scacchiera di cubi bianco sporco e rosa, forma delle vie a graticola, lunghissime e deserte, attraversate ogni tanto da qualche sonnambulo in cenci» e infine a Segesta, «un interno tutto aperto che ha per soffitti il cielo; ed è incredibile come basti il diaframma delle colonne a isolare ulteriormente chi arriva là dentro; il tempio più bello d’Italia».

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