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L’autonomia al Nord e le briciole al Sud in barba ai vincoli Ue

Di Adriano Giannola* |

La seconda ondata della pandemia, annunciata, temuta ed a lungo esorcizzata, è puntualmente arrivata con un’intensità che sconvolge tutta l’Europa. Trova un Paese molto provato, colto in mezzo al guado di un percorso tutt’altro che entusiasmante, intrapreso per mettersi in salvo sulla zattera del “Recovery Fund”. Senza una stella polare capace di dare la rotta, perché non c’è il coraggio di fissarne una, per default, giorno dopo giorno, il governo elude il tema di un quanto mai necessario ed esplicito aggiustamento strategico e ripropone al Paese l’edizione riveduta e corretta del tornare a “correre come prima”. Quella, cioè, di far correre Milano rallentando Napoli. In questo contesto la politica, invece di occuparsi della perniciosa prova di sé fornita dal decentramento regionale nel governo dell’emergenza, fa rinascere dalle sue ceneri la velleitaria pretesa di ottenere quella autonomia rafforzata, mandata in soffitta con la crisi di governo dell’agosto 2018. È di questi giorni la notizia sconcertante, riportata dal sito Regioni.it, che la manovra di Bilancio del governo prevede 4,6 mld da destinare a un fondo di perequazione infrastrutturale; precisa che lo stanziamento «si collega per procedere insieme, e quindi in diretto collegamento, con il varo della legge per l’Autonomia differenziata» e che le risorse saranno a disposizione delle Regioni del Sud non appena sarà approvata la legge sull’autonomia».

Il fondo al quale si fa riferimento rappresenta la tardiva attuazione dell’art. 22 della legge 42 del 2009. Vuol dire che i 4 mld finalmente stanziati in adempimento ad una legge non potrebbero essere utilizzati se non si arriva all’intesa tra Stato e Regioni. Se mai fosse vera questa ipotesi di subordinare l’applicazione di una legge alle sorti di una trattativa in alto mare, avremmo la conferma di un baratto a dir poco imbarazzante e il governo avallerebbe una condizionalità vagamente ricattatoria; quanto ai presidenti delle Regioni meridionali, ovviamente coinvolti in questa vicenda gestita dall’ineffabile Conferenza Stato-Regioni, sarebbero da censurare.

Il governo forse si illude di conseguire il duplice obiettivo di contenere le pretese di Lombardia, Veneto ed Emilia e di smussare i malumori dei presidenti meridionali. Fa specie anche lo sconcertante silenzio calato sulla clausola del 34%, che grosso modo avrebbe una dimensione finanziaria simile al promesso fondo “condizionato”, attuativo dalla legge 42. Anche esso è previsto per legge dal 2017. Il fatto, poi, che non si menzioni l’altro fondo perequativo previsto dalla legge 42 conferma il perdurare del criterio della spesa storica.

Arrivare al punto di condizionare 4,6 mld alla realizzazione dell’intesa segnala una determinazione del governo di varare l’autonomia, al cui confronto quella del governo giallo-verde appare di disarmante ingenuità!

Questa poco brillante operazione annuncia che gli argini alle strampalate illusioni di farsi Stato delle tre Regioni del Nord che guidano il fronte dell’autonomia rafforzata sono in procinto di cadere, in cambio il gregge meridionale potrà accontentarsi – ma solo a cose fatte – del fantomatico e modesto fondo di perequazione infrastrutturale. Tutto ciò mentre sull’uso delle risorse del “Recovery Fund” il silenzio continua a regnare sovrano.

Stando ai tre principali criteri che hanno portato a definire l’importo di 209 mld (quota della popolazione, media degli ultimi cinque anni del tasso di disoccupazione, reddito pro-capite), oltre 111 mld “spetterebbero” al Sud, in aggiunta alla riserva di legge del 34% sulle spese nazionali in conto capitale ed a più di 40 mld di fondi Ue della prossima agenda della politica di coesione. Tanta dovizia teorica di risorse sarebbe del tutto in linea con le condizionalità poste dall’Ue, che pone al primo posto la lotta alle diseguaglianze e l’impegno a rafforzare la coesione sociale: condizionalità che, unitamente all’impegno a privilegiare interventi “smart e green”, pongono in pole position – e non solo a livello nazionale – il nostro Sud.

Che ciò non risulti gradito lo si è rapidamente compreso dal coro che invoca il vento del Nord. Accanto alla rivendicazione dell’autonomia rafforzata, si apre così la paludata apertura delle ostilità fatta di martellanti e pretestuose contestazioni della verità scolpita nei numeri delle fonti ufficiali. La richiesta pacata, documentata di rispettare le regole e la Costituzione, viene tacciata, parafrasando Lenin, da capi e umili gregari come «rivendicazionismo, vizio infantile del meridionalismo». Ci si arrampica sugli specchi in consolatorie letture dell’ultraventennale razionamento indotto al Sud dall’asimmetrica terapia della “austerità espansiva” che ha intaccato strutture economiche e sociali, contribuendo pure a vanificare illusorie utopie del Centro-Nord che ha visto svanire il suo mercato interno per effetto della propria bulimia estrattiva. Invece di prendere nota del proprio e dell’altrui disastro, si giunge a imputare al Sud di fruire di miliardi l’anno di spesa pubblica in eccesso. Povertà educativa, emigrazione sanitaria, infrastrutture inesistenti sarebbero solo fastidiose apparenze. Perchè continuare a prendersela con la spesa storica, invocare il rispetto di regole e Costituzione?

Stando così le cose, il messaggio è chiaro: l’Ue non avrebbe davvero capito nulla quando ci chiede di mettere in campo una politica di sviluppo che passi per una radicale perequazione territoriale delle risorse soprattutto in conto capitale; cosa possibile in modo indolore con un oculato impiego della manna dal cielo del “Recovery Fund”. Spetta all’Ue fare capire al governo in primis e alle Regioni i termini cogenti delle condizionalità.

Dopo tanti lamenti sui vincoli “stupidi” imposti dal trattato di Maastricht, dobbiamo augurarci ora il rigoroso rispetto dei vincoli “intelligenti” delle condizionalità dell’Ue, la cui generosità non è pura filantropia, ma piuttosto l’interesse a vederci attivi e produttivi nel dare corpo alla finora fantomatica strategia Euromediterranea. Strategia divenuta indispensabile per evitare di perdere l’agibilità della frontiera Sud dell’Unione a rischio di essere presa in consegna oggi dai turchi e domani dai russi. E per noi evitare, come è accaduto finora, di compromettere la sola prospettiva concreta di avviare una reale nuova prospettiva di sviluppo.

*Adriano Giannola, economista, docente di Economia bancaria, dal 2010 è presidente della Svimez, l’associazione per lo Sviluppo dell’industria del Mezzogiorno.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA