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«È stato uno coi tatuaggi entrato a casa col machete», il folle racconto di Salvatore per spiegare l’omicidio dei genitori

Le minacce a mamma e papà: «Siete morti che camminano», le accuse della sorella, la pista (sfumata) di un piano per incassare il Tfr E l’interrogatorio: «Io un medium. Loro mi chiamavano: “Totò, Totò...”»

Di Mario Barresi |

Lui, però, l’aveva detto: «Voi due siete dei morti che camminano». Ma no, stavolta non c’è nemmeno il retrogusto agrodolce di una suggestione sciasciana. Qui, in una delle casupole popolari, tristi ma dignitose, di viale Rosario Livatino, semmai bisogna tornare alla radici arabe. E così la Regalpietra dei salinari e degli zolfatari assume più le sembianze di Rahal Maut, proprio il «villaggio morto» che i conquistatori trovarono in quest’ombelico di Sicilia dopo la peste.

Anche la follia, in fondo, è un morbo. Non contagioso. Ma che si respira, si combatte, si ’accetta; talvolta. In questo «duplice omicidio di un pazzo», come lo definiscono in Procura, la narrazione è di una semplicità devastante. Come la piantina di mandarini, sul pianerottolo, accanto alla porta d’ingresso coi sigilli dei carabinieri. Salvatore Sedita ha ucciso il padre e la madre. Mentre stavano consumando il pranzo di Santa Lucia. Tre posti apparecchiati, due occupati e uno rimasto vuoto. «Mi hanno detto che era pronto da mangiare. Io mangio tanto, circa 300 grammi di pasta. Pratico la lotta thailandese oltre al rap». Aggiungi un assassino a tavola. Rossa di sangue e non di sugo del giorno di festa. Lui, 34 anni, tossicodipendente (passato dall’eroina al crack, la droga dei poveracci nell’era del Covid), con problemi psicologici. E ora, dopo il fermo dei carabinieri, è proprio su un lettino bianco d’ospedale. Dove tossicologi e strizzacervelli stanno usando i fendinebbia per diradare il caos nella sua mente. E violento. Lo sapevano tutti. «I servizi sociali – ammette il sindaco Vincenzo Maniglia – conoscevano questo caso, avevano attenzionato l’emergenza». Non grazie alla palla di vetro, né alla microspie dentro quella casa. Ma su segnalazione di mamma Rosa Sardo.

«Vi scanno, vi uccido col coltello», le minacce più frequenti. Diventate fatti nel 2019 (aggressione dei due genitori: sottoposto a Tso), nel 2020 (lesioni al padre, picchiato e buttato a terra, indagato per maltrattamenti in famiglia ai danni dell’ex moglie Ilaria) fino a poco più di un paio di settimane fa, quando colpisce la madre con un barattolo. Ma ogni volta che gli assistenti sociali chiedevano di tirare fuori le denunce – una, in passato, c’è pure stata – il pudore di una famiglia umile diventa lo scudo protettivo di Salvatore.

Eppure la sorella descrive quello che il sostituto Gloria Andreoli sintetizza in «clima spiccatamente penoso» che aveva ridotto i genitori «in uno stato di totale prostrazione psicologica». Letizia Sedita non sembra sorpresa dall’epilogo: «Diceva che li avrebbe scannati e così ha fatto». L’ultima volta che i due si sono incrociati è stato domenica 4 novembre, a pranzo dai genitori. «Rideva da solo e mi fissava insistentemente, tanto che a un certo punto – racconta la sorella a pm e carabinieri, gli ho chiesto se avesse qualcosa da dirmi. E lui rispose: “Non ho niente da dirti”».

Eppure quando l’alba sta per illuminare timida una notte d’indagini e di brutti pensieri, la Procura – com’è giusto che sia – cerca altre piste. Una la cita, ma la esclude subito, la sorella stessa : i litigi con il vicino del piano di sopra «per questioni condominiali». No, qui non c’è alcun Campiti con la “Glock 45”. E poi l’altro sentiero, stretto e tortuoso, di un delitto legato a un raptus, ma legato piuttosto a lucide questioni di soldi. Papà Giuseppe era fresco di buonuscita. Un piccolo tesoretto, il Tfr, che magari farebbe gola a chi vuole incassarlo senza aspettare l’eredità. Ché poi chissà quando, chissà se, chissà… Silenzi, mezze frasi, sguardi. E se oltre a Salvatore ci fosse qualcuno che sa e non parla?

Ma l’ipotesi si scioglie con la rugiada di una mattinata tersa ma pungente. La mannaia «abbondantemente intrisa di sangue» trovata nel bagno di casa, le ciabatte del figlio «con la suola abbondantemente cosparsa (se non del tutto coperta) da tracce ematiche». Così come i vestiti. La confessione chiuderebbe il conto. Salvatore farfuglia mezze ammissioni – ma «non rende alcuna confessione: è un soggetto fragile, andava aiutato», come precisa piccato il suo avvocato, Ninni Guardina. Che era presente nel delirante interrogatorio dell’indagato. «Preciso che io in questo momento indosso la maschera di Sedita Salvatore Gioacchino, ma in realtà sono Emanuele Di Vita o Manuele Di Vita, non ricordo bene». Da qui la farneticante “testimonianza” sul delitto dei suoi genitori: «Verso le ore 16 ho sentito suonare il campanello. Aperta la porta ho visto un uomo che non conoscevo, aveva una faccia strana, con dei tatuaggi in faccia. L’uomo non ha parlato, mi ha solo guardato. E con uno sguardo – racconta Sedita – mi ha fatto capire di dovere andare via, cosa che ho fatto, lasciando entrare l’uomo in casa». Poi, dopo essersi costruito un alibi che non regge (le tre birre al bar, il crack fumato, poi «sono rimasto fuori tutta la notte»), il fermato aggiunge un particolare: i suoi genitori li ha uccisi l’uomo con i tatuaggi «e i capelli lunghi», che ha visto «entrare in casa con un machete». Poi, quando gli inquirenti gli chiedono dei rapporti in famiglia, si sprofonda nell’abisso. «Non voglio bene a mio padre, perché mi diceva della parole negative: tipo bastardo, mulo, figlio di puttana, mi diceva sempre che mi doveva uccidere. Ma le ha sempre dette senza motivo». E anche la madre (che lui nell’interrogatorio chiama «la signora Rosa»), rivela, «mi diceva brutte parole: era una strega, mia aveva fatto degli incantesimi». A lui che sostiene di essere «un medium», di vedere «fantasmi di 40-50 centimetri» e, «in qualche occasione», persino «l’uomo nero». Ed è per queste doti paranormali che, quando i genitori erano già cadaveri freddi, lui sostiene di averli comunque sentiti. «Mi chiamavano: Totò, Totò…».

Non è vero, non è vero niente. Il piccolo mondo antico di Totò crolla. Nelle carte dei pm sfilano le comparse – le birre al chiosco di “Bertinotti”, le fumate con Gino il muratore e le chiacchierate con Massimo, che abita «nella salita della fondazione», e con Ignazio “il ciarlatano” – e nemmeno qui c’è Sciascia; semmai Savatteri. Restano pochi dubbi. Il finale è triste e solitario. Ma soprattutto banale. Come il male. Come questa follia. Senza fascino diabolico: ordinaria, scontata, prevedibile. Ed è già buio pesto. Twitter: @MarioBarresi  COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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