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Veronica Panarello sulla tomba di Loris

Veronica Panarello sulla tomba di Loris “Scoprirò chi ti ha ucciso”

La donna ha portato fiori sulla lapide / VIDEO 1 - 2 / FOTO

Di Mario Barresi |

SANTA CROCE CAMERINA. Sfida la pioggia battente per avvicinarsi al finestrino. «Scusi? Mi sa dire dov’è il cimitero? ». Alle quattro e un quarto del pomeriggio una bagnante “pentita”, prendisole colorato e capelli incrostati di salsedine, si aggira per le vie deserte di Santa Croce. I nuvoloni neri e gonfi già piangono le loro lacrime e la signora, dal vistoso accento nordico, non ha dovuto neanche rinunciare a tuffi e tintarella per mettere in pratica il “piano B” di questo grigio pomeriggio d’agosto. «La televisione ha detto che viene Veronica a trovare Loris. Dove è che devo andare per vederla anch’io? ». Ma la turista dell’orrido, con l’aggravante di una ragazzina al seguito, non potrà esaudire il suo sogno di mezz’estate. Perché sì, Veronica Panarello arriva al cimitero di Santa Croce per stare un’ora scarsa a piangere davanti alla tomba del figlio Loris, per l’omicidio del quale è accusata e rinchiusa in carcere dall’8 dicembre dell’anno scorso. Ma tutto avviene in un contesto blindato, bonificato già da giovedì pomeriggio e vietato a giornalisti e curiosi. Che arrivano tutti da fuori, perché i santacrocesi sono piuttosto distratti. 

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«Non è una cosa che mi riguarda, sono fatti suoi», ci dice un signore di mezz’età appena uscito dal bar con un “pozzetto” di gelato alla nocciola da mezzo chilo. In piazza Vittorio Emanuele non c’è voglia di parlare, ma basta avvicinarsi a una delle poche case non chiuse ermeticamente per ascoltare i decibel delle trasmissioni televisive che rilanciano le dirette a rullo. Sembra una macchina mediatica del tempo, un ritorno alle lunghe settimane che seguirono al ritrovamento – il 29 novembre 2014 – di un bambino di otto anni, morto dentro un canalone, accanto al mulino vecchio. Un incubo mediatico che ritorna. Hanno già pagato un prezzo pesantissimo, i cittadini di Santa Croce.

E questa invasione estiva sembra un malefico pugno di sale gettato su una ferita ancora aperta. Tant’è che Liliana arringa: «Non fate i curtigghiari oggi, rimanete a casa. Vediamo se c’è un minimo di rispetto. Già ci pensano i giornalisti». Il drammone è ancora in diretta, ma scorrono le immagini sul nulla. Perché il cordone di sicurezza (carabinieri, polizia, guardia di finanza, polizia municipale, protezione civile) blocca qualsiasi essere umano a mezzo chilometro dal cimitero; agenti in borghese anche a presidiare le campagne attorno per evitare appostamenti di operatori e fotografi. E quindi alle 17,22, quando sbuca il furgone della polizia penitenziaria proveniente dal carcere di Agrigento, scortato da quattro auto, si può soltanto immaginare il volto della mamma accusata dell’omicidio del figlio che sta per “riabbracciare” dopo nove mesi. Già in carcere il giorno dei funerali, l’ultimo contatto risale a quando chiese agli investigatori di potere portare un fiore all’obitorio. Era una donna libera, all’epoca.

E al suo fianco c’era il marito, Davide Stival, che adesso non vuole vederla da mesi. Quando lunedì scorso è arrivata l’autorizzazione del gip di Ragusa, Claudio Maggioni, all’istanza del legale della donna, Francesco Villardita, per questa visita al cimitero, anche tutti gli altri familiari sono stati informati. Ma è una detenuta. E il momento tanto atteso Veronica lo consuma senza parenti né amici. L’unico segnale della sua famiglia è il mazzo di fiori – girasoli, margherite e rose bianche – che il padre, Franco Panarello, ha consegnato all’avvocato prima dell’incontro. E con quel dono colorato – lei vestita tutta di nero: maglietta, leggins e scarpette da ginnastica – si presenta sulla tomba di Loris.

Gli agenti l’accompagnano fino a un cancello sul retro, che dà proprio sullo slargo nei pressi della lapide. Nella zona nuova del cimitero. Dove la tomba di Loris, una delle poche fra tante in costruzione, la riconosci subito: bianca, lucida, coloratissima. «Ciao Loris, adesso insegna agli angeli a calciare». Sul marmo una corona di rose bianche finte e un paio di pupazzetti. Decine di peluche, persino nella nicchia dove un Cristo in croce sembra sgomitare per restare lì dentro assieme a orsacchiotti e bambole. «Qui vengono spesso turisti a chiedere dov’è la lapide – rivela Vincenzo Zisa, dipendente comunale assegnato ai servizi cimiteriali – e poi entrano, si fermano un attimo in preghiera, magari lasciano dei fiori. C’è molto rispetto. Anche stamattina era venuto un signore, ma la polizia non lo ha fatto avvicinare».

Alle cinque e mezza del pomeriggio Veronica è a pochi passi da Loris. Cammina lenta, è pallida. Una ventina di persone attorno a lei; alcune in divisa, molte in borghese; tutte discrete. Eccola. Si ferma. In silenzio. Accanto a lei il suo avvocato. Che sta tre passi dietro. La madre posa il mazzo, che sembra quasi pesarle come un macigno, sulla lapide. E si inginocchia. Minuti interminabili. Un dolore tutto sommato composto. Ma poi, quando un filo di sole squarcia il vialetto polveroso, non riesce più a trattenersi: «Loris, bambino mio, scoprirò chi è stato, te lo prometto». E scoppia in un pianto che prova a contenere col silenziatore della dignità, fors’anche del pudore. Qualcuno le chiede se ha bisogno di qualcosa: dell’acqua, un fazzoletto. Lei fa solo un cenno col capo: no, grazie. Si china ancor di più sulla tomba dove c’è quel ragazzino (lo scorso 18 giugno avrebbe compiuto nove anni) che per quasi tutto il resto del mondo è stato vittima della lucida follia di lei, madre assassina senza scrupoli. Piange, piange ancora. La visita sta finendo. Nel deserto del cimitero, aperto solo per loro, non tira un alito di vento.

I testimoni di questo incontro intimissimo sono quasi distratti, pur con l’occhio all’orologio, quando Veronica, stavolta alzando la voce che rimbomba nel silenzio urla: «Loris, te lo giuro: tornerò. Tornerò e sarò libera». Lo ripete, più a bassa voce: «La tua mamma tornerà da te e sarà una donna libera». Scorrono i titoli di coda. «Signora, scusi, dobbiamo andare». La visita è finita. Un ultimo sguardo alla foto di Loris sorridente con la divisa di bianca e azzurra del taekwondo. Il polso che asciuga le lacrime. Una stretta di mano all’avvocato: «Ci vediamo presto». Alle 18,17 – cinque minuti prima del furgone blindato che riporterà Veronica nella sua cella ad Agrigento – sfila la Mercedes grigia di Villardita. «Nulla da aggiungere a un pomeriggio di dolore composto e profondo. Vi chiedo soltanto di rispettarlo, nient’altro», si limita a smozzicare al telefono. Qualche giorno di vacanza e poi riprenderà a lavorare sulla difesa della donna. Omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere: questa è l’accusa della Procura di Ragusa, guidata da Carmelo Petralia. Passata positivamente al vaglio del gip di Ragusa, del tribunale della libertà Catania e della Cassazione.

Tutti con la stessa nenia: è stata la madre a uccidere Loris, l’ha strangolato con le fascette in casa e poi ha buttato il cadavere nel canalone. Ma lei ha sempre ribattuto: «Io quella mattina Loris l’ho accompagnato a scuola, non sono stata io a ucciderlo». Una guerra giudiziaria tutt’altro che chiusa, con le indagini preliminari ancora in corso e l’incidente probatorio in corso di svolgimento. Santa Croce torna tranquilla, le troupe sgommano dal cimitero. Anche il sole prova a mostrare i muscoli. Ma resta sulle strade l’odore acre del violento acquazzone del pomeriggio. Roberto ha una sua tesi: «Tutta quest’acqua era il pianto per il piccolo Loris, forse perché l’ha perdonata. Io non lo potrò mai fare. Riposa in pace piccolo angelo». Come svegliarsi dopo un brutto sogno. L’inverno è già lontano. Stanotte si respira. E oggi, qui, sarà di nuovo estate.

twitter: @MarioBarresi

(ha collaborato Alessia CataudellaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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