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«Noi imprenditori pronti, ma in Sicilia mancano infrastrutture e leggi adeguate»

Flora Mondello, delegata Sicindustria per il settore agrolimentare, analizza il futuro del comparto e le ragioni per cui i nostri prodotti non sono competitivi.

Di Carmen Greco |

«Infrastrutture, logistica, leggi adeguate, interlocutori a vari livelli all’altezza delle nostre richieste, accesso al credito fatto su modelli che tengono presenti le realtà siciliane, non su modelli standard che vanno bene per le campagne venete ma che poi si scontrano con la realtà dei territori siciliani».  Non le manda a dire Flora Mondello, architetta, produttrice di vino e delegata di Confindustria Sicilia per l’agroalimentare.  Un settore che per la Sicilia viene considerato un fiore all’occhiello e contemporaneamente un’eterna promessa di sviluppo non più rinviabile ora che abbiamo capito come quello che produciamo (e mangiamo) sia profondamente legato a quello che vivremo nel futuro. Se è vero che l’agroalimentare sta “attraversando” la pandemia con numeri meno drammatici di altri comparti, è anche vero che bisogna avere una “visione” per trasformarli in sviluppo permanente.  

«Quando parliamo di agrolimentare bisogna distinguere fra primizie e trasformati – precisa Mondello – . Tutto ciò che va in Gdo ha continuato ad andare bene, è stato garantito puntualmente pur con grandi sforzi da parte delle aziende ed è arrivato sulle nostre tavole. Invece ciò che viene trasformato come il vino – voce importantissima del pil siciliano – e non parlo delle bottiglie basic, ma di quelle di qualità, hanno avuto una battuta d’arresto notevole per lo stop del canale horeca. Vini doc e di pregio che negli anni hanno fatto la fortuna del brand Sicilia, non si sono venduti e questo è e resta un grosso problema. Questi vini sono rimasti bloccati nelle aziende e le misure attuate dall’assessorato regionale all’Agricoltura e dall’Agea per dare un poco d’ossigeno ai produttori, ahimè, non sono sufficienti. L’anno scorso è stata attuata la distillazione straordinaria, quest’anno c’è la misura che prevede delle sovvenzioni per lo stoccaggio dei vini, ma non è una cosa prettamente siciliana è un bando nazionale. Però, quando lo Stato ti dà, 0,6 centesimi al litro e tu devi vincolare almeno 100 ettolitri non te ne fai nulla, conviene che lo vendi a 0,50, 0,80 al litro con il risultato che sei costretto a declassare un vino fatto con grandi sacrifici che era destinato a diventare un prodotto di pregio».

Quindi l’agroalimentare che funziona è una favola?

«Vuole la verità? Per me non va bene. Rispetto a quello che noi produttori spendiamo per mantenere alta la qualità del prodotto e rispetto a quello che spendiamo per cercare una manodopera che non c’è. È sempre più difficile trovare personale siciliano, italiano straniero, anzi è sempre più difficile trovare personale in generale. Il tema vero è riuscire a “trasformare” i nostri prodotti, cioè chiudere la filiera. Fino a quando il piccolo produttore vende al grossista non ce la può fare, il prodotto glielo pagano molto poco ancor meno se lo vende sfuso. Certo, per fortuna ci sono anche le eccezioni. La provincia di Ragusa, per esempio, dove negli anni, s’è investito sul sistema della trasformazione del prodotto agricolo ma è una piccola oasi felice, lì si fa mercato. Ma province come quella di Messina, la mia provincia, non hanno avuto lo stesso percorso. Io, per esempio, devo la mia fortuna all’esportazione di patate novelle, ma purtroppo non c’è stata una trasformazione adeguata in base ai tempi che cambiavano, e ormai la possibilità di puntare su quel prodotto si è persa. Bisognava lavorarci prima, trasformare l’offerta, chiudere la filiera, portare innovazione anche lì. Se poi ci aggiungiamo l’apertura – vent’anni fa – del mercato ai paesi del Mediterraneo dove la manodopera non costa nulla, i diritti del lavoratore non esistono, il gasolio ti costa pochissimo, burocrazia e legalità non ci sono, è facile capire come i costi che siamo tenuti ad affrontare, non ci rendono competitivi rispetto agli altri mercati».

Quali vie d’uscita vede per ribaltare questo trend? «Per me bisogna cominciare a supportare gli imprenditori, ascoltarli. Ho una serie di incontri già calendarizzati per il mese prossimo. Vedremo quali sono le richieste, i dubbi, le voci delle varie delegazioni e, soprattutto, se emergeranno temi comuni più urgenti sui quali lavorare per trovare delle soluzioni».

Due temi che si aspetta di trovare sul tavolo? «Sicuramente la battuta d’arresto delle vendite dovute al covid, il costo della logistica che è massacrante sia per il reperimento di materie che in Sicilia non ci sono, ma ancora di più per la movimentazione dei nostri prodotti un costo che non ci consente di essere competitivi».

La Sicilia è la prima regione d’Italia per numero di aziende biologiche certificate Bio (9.444 su un totale nel Paese di 59.461). Ma la regione è pronta a trasformare questo primato in sviluppo reale? «Noi imprenditori siamo prontissini. Negli anni abbiamo imparato a resistere e sopravvivere, da sempre abbiamo la versatilità nel nostro dna. Ciò che non è pronto è il contesto e pure la politica. Noi possiamo arrivare fino ad un certo punto, poi deve intervenire il sostegno territoriale e quello te lo dà la politica e non necessariamente solo quella regionale, parlo di sistema politico a tutti i livelli. Per come è strutturato il “sistema Italia” ci vogliono dei burocrati attenti che devono conoscere la Sicilia. La Sicilia è un continente ogni provincia ha le sue peculiarità ci vogliono persone, uffici, sistemi all’altezza. Gli ispettorati funzionano abbastanza, in realtà, ma è un problema secondo me strutturale, endemico, molte volte vanno ad un’altra velocità. Il “sistema regione” conosce benissimo le difficoltà dei viticoltori per dirne una, di coloro che hanno stretto i denti, hanno continuato a curare la vigna a garantire una produzione di qualità contando solo sulle loro forze, lo sanno, lo sanno bene. Ma poi chi deve fare le misure attuative dorme. Quando tu in una cantina abituata a fatturare un milione, due milioni di euro l’anno dai 2.000 euro di contributi una tantum che facciamo? Niente, ci paghiamo forse solo le bollette…».

Una delle misure del Pnrr riguarda proprio lo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile e comprende investimenti anche per la logistica, innovazione e meccanizzazione nel settore agricolo e alimentare, per un totale di 2,8 miliardi di euro. Che cosa si aspetta da queste misure? «Io credo che – se adeguatamente sfruttate – siano per noi una buona occasione. Ci consentiranno di ridurre il gap con le altre regioni proprio sul piano della logistica e delle infrastrutture che sono lo scheletro di una regione sulle quali siamo abbondantemente indietro. Poi mi aspetto misure per le imprese adeguate e misure a sostegno del lavoro adeguate che non possono essere il reddito di cittadinanza. Non riusciamo a trovare manodopera anche per questo, io personalmente non ho mai ricevuto la telefonata di un navigator che mi proponesse qualcuno. Zero».

In una parola, agroalimentare che significa per la Sicilia?

«Significa vita. Vita. Perché l’agroalimentare è quel sistema produttivo che ti permette di non abbandonare il territorio, di curarlo, di creare manodopera e lavoro in loco, e di aprirti ai più svariati mercati. Io dico sempre che posto sui mercati ce n'è per tutti bisogna essere semplicemente bravi a far incrociare domanda e offerta, e noi che possiamo vantarci di avere una biodiversità tale che rende la Sicilia un piccolo continente a se stante, un microcosmo, dobbiamo quanto più possibile investire sulla biodiversità, e andarci a cercare nuove di fasce di mercato, nuovi clienti. Ripeto, noi imprenditori siamo pronti, abbiamo bisogno di avere delle strutture di supporto, logistica, infrastrutture, logistica, leggi adeguate, interlocutori – a vari livelli – che siano all’altezza delle nostre richieste e accesso al credito fatto su modelli che tengano presenti le realtà siciliane, non su modelli standard che vanno bene per le campagne venete ma che poi si scontrano con la realtà del territorio siciliano».

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