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Servizio pubblico e interessi privati

Servizio pubblico e interessi privati

Di Carlo Anastasio |

Sarà per il tramonto dell’era Berlusconi, sarà per i riflessi di questa interminabile crisi economica, certo è che ultimamente il mostro sacro Rai appare sempre più mostro e sempre meno sacro. Un tempo, tra “editti bulgari” del Cavaliere, proprietario di Mediaset, contro giornalisti scomodi, e lamentazioni di sedicenti eroi della guerra dei vent’anni contro di lui, l’emittente di Stato era un tabù: non appena se ne metteva in discussione qualcosa scoppiavano tempeste di polemiche, dalle quali essa usciva magari con nuovi equilibri interni, però complessivamente indenne, e anzi spesso rinvigorita, perché, essendo l’oggetto del desiderio di tutti i contendenti, da tutti loro riceveva attenzioni generose. D’altra parte, in un’Italia non ancora impoverita dalla depressione degli anni recenti, certi sciali e certi sprechi, le note spese principesche, i compensi regali, le sedi faraoniche, davano sì fastidio, ma non provocavano nei contribuenti la rabbia di adesso. Oggi il mondo è molto cambiato, e Matteo Renzi può davvero guadagnare consenso, come lui stesso ha sostenuto, togliendo una bella fetta dalla torta dei soldi della Rai ed essendone ripagato con uno sciopero (fatto salvo che proprio Renzi poi inciampa in un riflesso condizionato da vecchia politica, quando rimprovera Giovanni Floris per aver preso duramente le parti dell’azienda nel loro faccia a faccia a Ballarò). Ma la questione basilare è se abbia ancora un senso il servizio pubblico, il cuore del mostro sacro. Ecco, cosa si intende per servizio pubblico? Si intende una informazione obiettiva e completa, sotto la vigilanza dell’apposita commissione parlamentare? Se è così, nulla di più democraticamente blasfemo, perché è l’informazione che deve vigilare sui partiti, non viceversa, e non è ammissibile che si trattino i cittadini come minus habens, inabili a informarsi adeguatamente da soli. E di sicuro non è servizio pubblico l’intrattenimento, o almeno non lo è più di quanto lo sia quello messo in onda dalle emittenti private. Invece è servizio pubblico lo spazio dedicato ad aree marginali della società e della cultura, il “diritto di tribu- S na” assegnato a voci che, senza tutele, non avrebbero posto nel coro delle trasmissioni televisive. E sono servizio pubblico, per esempio, iniziative didattiche e in generale di formazione. Ma questi soli settori non giustificano il regime pubblico dell’intero mastodonte Rai, né le ingenti risorse che gli si danno con la tassa chiamata canone. Basterebbe mantenere una piccola struttura per programmi di nicchia, o addirittura assegnarli di volta in volta, mediante concorsi di idee e appalti, a televisioni private. E tutto il resto? È vero, non sempre le trasmissioni sono un costo. Personaggi televisivi molto popolari della Rai non mancano mai di sottolineare che raccolgono più denaro con la pubblicità di quanto se ne spende per i loro programmi. Però – a parte che nei calcoli bisognerebbe inserire il vantaggio dato dal marchio e dall’organizzazione Rai – il punto è un altro: si tratta di programmi che fanno concorrenza ad analoghi programmi di emittenti private, e non c’è motivo per cui debbano stare nella tv di Stato. Allo stesso modo, non si capisce perché debbano beneficiare di una piattaforma pubblica i telegiornali, che competono con telegiornali di canali privati (e tra loro). La Rai, va detto, è piena di talenti e professionalità, ma non c’è dubbio che sotto l’insegna – tante volte ipocrita – del servizio pubblico abbiano prosperato anche privilegi e interessi fin troppo privati, e abbiano lautamente banchettato partiti e politicanti, con raccomandazioni, spartizioni, baratti di favori, assunzioni, carriere e nomine pilotate; e continueranno all’infinito, se li si lascia fare. Vizi privati sotto l’insegna delle pubbliche virtù, un altro dei malvezzi che appesantiscono l’Italia, e che in un tentativo di ripartenza del Paese sono zavorra da scaricare. Prima si spezza il rapporto insano tra emittenza e politica e meglio è. Insomma è già il momento che la Rai diventi a tutti gli effetti privata, e che i suoi talenti e professionalità affrontino il mare aperto del mercato, senza rotte tracciate dalla malapolitica, e soprattutto senza il salvagente del finanziamento pubblico, o meglio: senza il lussuoso transatlantico del canone.

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