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Labisi “bifronte”, “007” e il Mossad: ma ad incastrarlo beghe di famiglia

Di Mario Barresi |

CATANIA – Una personalità «connotata da un rilevante tasso di pericolosità sociale». E, per motivare la durezza del giudizio, Nunzio Sarpietro, presidente della sezione Gip del Tribunale di Catania tratteggia in pochissime righe il profilo di Corrado Labisi, l’imprenditore arrestato ieri assieme a moglie, figlia e due collaboratori con l’accusa di aver creato un “buco” di 10 milioni di euro nella gestione dell’Istituto medico psico-pedagogico Lucia Mangano di Sant’Agata li Battiati. Secondo l’accusa, avrebbe «gestito i fondi erogati dalla Regione Siciliana e da altri Enti per fini diversi dalle cure ai malati ospiti della struttura, distraendo somme in cassa e facendo lievitare le cifre riportate sugli estratti conti accesi per la gestione della clinica».

Da una parte, Labisi è «in grado di inquinare le prove, anche per le numerose conoscenze di personaggi “importanti”, scrive il giudice. Annotando che l’arrestato «millanta amicizie importanti con apparati dello Stato o, addirittura con i servizi segreti». E su questo punto nell’ordinanza si evoca l’intercettazione (presente nell’informativa della Dia di Catania) fra l’ex massone e quello che nelle slide della conferenza stampa viene definito «già dipendente Ministero della Difesa». Ma che ha un nome e cognome: Giuseppe Firringieli, non indagato. Parla con Labisi il 14 ottobre 2017, poco il sequestro di atti e materiale informatico della Dia all’istituto “Lucia Mangano”.

Labisi: «… ti ho chiamato perché… praticamente… tu ce l’hai un altro libro di “Noi italiani voi siciliani”?».

Firringieli: «Sì, lo dovrei avere… sì».

L: «… e… perché è venuto a trovarmi… è venuto con la macchina… perché ha saputo una cosa su di me e vuole capire… che sporcizia mi stanno facendo… C’è stato un tuo capo dei Servizi Segreti… e del quale ti conosce… non ti faccio il nome per telefono».

F: «… ah, ho capito…».

L: «Lui è venuto appositamente con la macchina perché ha saputo questa schifezza che mi hanno fatto… eccetera eccetera… dice: dobbiamo capire a 360 gradi se c’è qualcuno che deve pagare perché questa è la schifezza fatta a uno che si batte per la legalità. Vediamo a chi dobbiamo fare saltare la testa…».

F: «… appunto…».

L: «si batte per la legalità… è vicino a noi, che fai operazioni con il Mossad… (inc.)… vediamo a chi dobbiamo fare saltare la testa…».

Al di là dello shock sulla gravità di parole rivolte a investigatori e magistrato, resta il mistero sull’identità del (millantato?) «capo dei servizi segreti» amico dell’arrestato, che dichiara di averlo incontrato. Esiste davvero? E, se sì, chi è? C’è un legame con la dichiarata appartenenza di Labisi alla massoneria? Un’indagine così scrupolosa non lascerà nulla di inevaso.

Il secondo riferimento sulla «personalità» di Labisi, nelle 23 pagine di un’ordinanza asciutta ma incalzante, è ai «rapporti di amicizia con mafiosi di grosso calibro». Il riferimento è a Giorgio Cannizzaro, ritenuto esponente di spicco del clan Santapaola, al quale l’imprenditore «riserva un posto nelle prime file della chiesa dove si svolgeva il funerale della madre».

Eppure il particolare più curioso dell’inchiesta “Giano Bifronte” è che il potente Labisi – paladino della legalità; assegnatore di premi a magistrati e vertici di istituzioni e forze dell’ordine; massone, presunto amico del boss, intercettato mentre vanta rapporti con i servizi segreti – cade nella più banale delle bucce di banane. Ovvero: le rogne familiari. In quella che il gip definisce «una articolata e complessa indagine preliminare» risultano importanti le intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che le consulenze contabili. Ma a inchiodare Labisi sono le «numerose persone informate dei fatti». Testimoni decisivi. Che sono soprattutto parenti. Sono la sorella Maria Lucrezia Labisi (ex amministratrice dell’ente benefico, fra lei e l’arrestato «sono sorte nel tempo delle situazioni di contrasto molto forti») e la nipote Consuelo Carrubba, ex dipendente dell’istituto, che ha avuto «accesi contrasti» con Labisi «in merito alla gestione della struttura aziendale ed alle conseguenze negative che ne stavano derivando sotto il profilo economico e finanziario».

Le due donne hanno reso al pm «particolareggiate dichiarazioni ampiamente accusatorie nei confronti del congiunto, apertamente accusato di una illecita gestione dell’istituto». La sorella e la nipote accusano Labisi di «una serie di appropriazioni indebite di rilevanti somme di denaro, attrraverso meccanismi truffaldini». Un’altra teste-chiave è omonima dell’adorata compianta madre dell’arrestato: Antonietta Labisi. Un’altra nipote, nel cda del “Lucia Mangano” fino al 2016, dal quale a suo dire sarebbe stata allontanata «nel momento in cui ebbe a sollevare il problema della illecita gestione dell’ente».

Importanti anche le versioni fornite a Dia e magistrati da alcuni ex addetti alla contabilità dell’ente, ma anche da un impiegato di banca che conferma come Maria Gallo e Francesca Labisi «utilizzassero le casse dell’Istituto come un proprio bancomat».

I Labisi usano il “Lucia Mangano come «una sorta di pozzetto», ricostruisce il gip. Attraverso «una criminale gestione fortemente dolosa e protesa esclusivamente al raggiungimento di un arricchimento personale, spesso per condurre una vita lussuosa, socialmente in vista». Dal «compendio probatorio», il giudice ricostruisce anche un viaggio di Labisi in Costa d’Avorio «per acquistare diamanti di cui nulla si sa, sempre utilizzando le casse dell’Istituto». Circostanza confermata dall’ex addetto all’ufficio contabile, Francesco Curcio, che rivela agli investigatori il «trasferimento di fondi all’estero tramite la compagnia Western Union» per il «più che probabile pagamento» dei diamanti.

Nell’ente benefico la «condotta criminale» dei Labisi non era un segreto. E anche i due fedelissimi arrestati, Giuseppe Cardì e Gaetano Consiglio, che ne «beneficiano ampiamente», ricevendo «varie regalie e vari compensi per se stessi e per i familiari», si lasciano scappare cosa pensano davvero del titolare. «Non è facile, come associazione loro non possono giustificare quei soldi», spiegava Cardì a Consiglio. E ancora: «Lui in una struttura da 240 dipendenti si ammucca 300, 400mila euro. Alla Regione questo che si sarebbe mangiato?».

La domanda resta in sospeso. Basta il buco milionario nell’istituto che doveva sostenere gli “ultimi”. E che adesso è sull’orlo del baratro. Con il pane di 180 lavoratori (onesti) molto più che a rischio.

Twitter: @MarioBarresi

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