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Crisi, Antonio, esodato a 50 anni e finito per strada

Di Pierangela Cannone |

Catania – Sembrerebbe la storia di un uomo come tanti che, a cinquant’anni, ha perso il lavoro ed è stato costretto a reinventarsi per sopravvivere. Antonio Magazzù, però, fa parte di qui disoccupati che non riescono a superare la condizione di esodato. Anzi, per lui, il passo da professionista a clochard è stato breve.

Messinese emigrato in Sardegna, Antonio ha svolto la mansione di infermiere professionale fino a 54 anni, quando la Casa di cura in cui lavorava ha chiuso i battenti, licenziandolo. Finito sul lastrico, è stato abbandonato anche da moglie e figlia. Da qui comincia il suo calvario: tre anni fa decide di tornare in Sicilia, a Catania, dove spera di ricostruire la sua vita perché «mia mamma è morta qui – racconta l’uomo con estrema lucidità – e mi conforta il ricordo degli ultimi giorni trascorsi con lei».

Ma il ricordo degli anni sereni per Antonio, adesso 59enne, non basta. Così, senza un lavoro, si è dovuto spogliare del suo ruolo professionale per adeguarsi alla vita di strada. Adesso è uno dei tanti clochard che popola la città, anche se «non mi sento come loro – precisa Antonio – perché molti di loro hanno scelto la strada come casa. Io invece non ho avuto alternative. Quando sono arrivato a Catania, l’unico posto che ricordavo era il Giardino Bellini perché ci andavo da bambino con la scuola. Con la valigia per cuscino, ho trascorso lì la mia prima notte da barbone con la convinzione che fosse anche l’ultima. L’indomani ho girato alcune chiese in cerca di aiuto: chiedevo un lavoro, mi è stato offerto solo un pasto caldo. «Così – continua – mi sono rivolto agli assistenti sociali e alle istituzioni. Anche in questo caso sono stato indirizzato nei centri di prima necessità, ma ho rifiutato: accettare sarebbe stato ammettere la mia condizione. Avevo la speranza di ricominciare, ma è mancata l’opportunità. Eppure spero ancora in una svolta».

Il cambio di rotta che Antonio si augura è quello di tornare a svolgere la sua professione. Racconta di essersi rivolti agli Enti adatti al suo ruolo professionale, ma senza risposta. Ha anche tentato di svolgere professione libera facendosi pubblicità da solo, ma «Chi affiderebbe un malato – ammette – alle cure di un barbone? È un circolo vizioso dal quale non riesco a uscire».

Ormai Antonio la notte non dorme più. «Ho paura – spiega – degli altri barboni che potrebbero farmi del male. Quindi, vago per la città aspettando che faccia giorno e, all’alba mi riposo in via Etnea sui miei cartoni, come fossero un materasso. Qui trascorro la giornata avvolto in una coperta e sopporto le critiche e il disprezzo della gente. Ho perso ogni speranza e ogni fiducia nella vita e nel genere umano. Le mie giornate non hanno più senso, scorrono sempre uguali in attesa di una conclusione definitiva. Solo la morte, a questo punto, potrà liberarmi». Eppure, l’uomo lancia l’ultimo appello. «Concedetemi ancora una possibilità: datemi fiducia, sono un professionista. Non consideratemi solo un barbone».

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