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Catania, Massimo Ranieri: «La mia vita dentro l’opera di Cechov»

Di Graziella Pulvirenti |

Catania – “Musica e Cechov, un connubio che sa di favola e di miracolo”. Questa l’essenza de “Il Gabbiano (à ma mère)”, un nuovo adattamento dell’opera di Cechov firmato e diretto da Giancarlo Sepe, un regista che ha fatto della sperimentazione un credo. Un allestimento con un protagonista d’eccezione, Massimo Ranieri, che torna al teatro scegliendo un testo “pietra miliare” del Novecento. Lo spettacolo è in scena dal 4 all’ 8 aprile al Teatro Abc di Catania per la stagione di prosa “Turi Ferro”, organizzata da Abc Produzioni, reduce dal successo dei giorni scorsi al Teatro Quirino di Roma. Ranieri, mattatore assoluto, può contare su un cast di cinque attori di prim’ordine, tra cui Caterina Vertova, nei panni di Irina, Pino Tufillaro e Federica Stefanelli. L’adattamento del celebre dramma dello scrittore russo firmato da Giancarlo Sepe si caraterizza per la commistione di generi, commedia, recital, balletto, e la musica diventa protagonista. Una musica che trae spunto proprio dal carisma e dalla vita di Massimo Ranieri. «È una grande rivisitazione – afferma – bella, molto interessante, molto intrigante. E io non vedo l’ora di incontrare il calore dei catanesi che conosco bene e che mi manifestano il loro affetto da tanti anni».

Come si è arrivati a rivoluzionare un testo così famoso?

«Tutto cominciò dal fatto che “Il Gabbiano” al suo debutto fu un insuccesso. Allora il buon “Antonio” Cechov chiamò il suo amico critico musicale, Marcel – invece di uno teatrale, dei quali non si fidava – e gli lesse il copione. Lui gli rispose che i personaggi erano fuori ruolo e non c’era musicalità nelle loro battute. Da qui è nato lo spunto. Giancarlo Sepe ha sposato la mia idea di aggiungere quella musica che mancava, ma certo non potevo cantare in russo e allora abbiamo scelto la lingua francese, visto che il critico Marcel era francese. C’è una connessione tra musica e parola molto importante, sembra quasi che questo dramma sia nato con queste musiche meravigliose, tanto che non riuscirei più a immaginarlo senza».

In una scena surreale caratterizzata da un enorme pianoforte, Ranieri interpreta alcune chanson dei poeti e cantautori cari all’esistenzialismo francese: Avec le temps (Leo Ferrè), La Foule (Edith Piaf), La chanson des vieux amants (Jacques Brel), Je suis malade (Serge Lama), Et maintenant (Gilbert Becaud), Hier encore (Aznavour). E rievoca le reminiscenze dello scrittore incompreso Kostantin Treplev, che lui interpreta in età matura, rivivendo a distanza di anni, melanconicamente, contrasti, ardori e amori giovanili. «Io non sono altro che l’emanazione di quello che è stato Kostja, i fatti si vedranno attraverso i suoi ricordi, in un flashback, come se l’opera fosse stata scritta da un narratore esterno».

In questo flashback c’è anche una partecipazione personale a più di 50 anni dall’inizio della sua carriera?

«Certo, c’è Kostja quello vero, che si manifesta attraverso i dialoghi e i monologhi, e c’è Massimo Ranieri, e la gente capisce che siamo la stessa persona. Tutto si svolgere nel mio camerino, appena prima di andare in scena. C’è un pianoforte lungo quattro metri, che occupa buona parte del palcoscenico, per far capire che la musica è fondamentale. È il pianoforte della mia testa, della mia vita, dal pianoforte verranno fuori tutte le situazioni che sono accadute nell’arco di decenni. Si apre la mia testa e parto per un viaggio dal quale Kostja non tornerà mai più. Tutto questo è molto intrigante, ammaliante, fascinoso».

Il sottotitolo à ma mère rievoca un sentimento personale?

«Si riferisce al rapporto conflittuale tra Kostja e la madre. Ma c’è anche il mio vissuto, ricordi di quando ero bambino, di mia madre, santa donna, che ci ha lasciato due anni fa e che ha dovuto accudire otto figli. Il suo amore ha dovuto dividerlo come in una torta, una fettina a ognuno, se fossimo stati solo due figli sarebbe stato diverso. C’è in me un desiderio di dolcezza, come del resto in ognuno di noi. Ho pensato, allora, di dedicare lo spettacolo a mia madre, e Giancarlo Sepe ha preso spunto dalla mia vita, dal mio rapporto con i genitori, intrecciandolo con quello di Kostja e con il suo lacerante rapporto con la madre Irina».

Una esperienza, ogni sera, molto partecipata?

«La vita è dolore, se tornassi indietro forse fare molto meno di quello che ho fatto fino ad adesso, proprio per dare più spazio alla famiglia, perché non ne ho una mia, ho quella delle mie sorelle, i miei genitori. Loro sono stati i miei figli, perché ho dovuto assisterli. Così il teatro è la mia casa, lo spettatore è uno di famiglia, ogni sera mangiamo insieme: c’è chi si accontenta del vino e chi si alza da tavola scontento. In quelle due ore c’è la verità della vita».

Perché ha scelto questo testo?

«È un’opera che ho sempre desiderato interpretare, proprio perché è il teatro nel teatro. Allo stesso modo da tanto tempo desidero mettere in cantiere “I sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello, vorrei interpretare il padre, adesso che ho l’età per farlo. È un testo che va studiato, sviscerato, spulciato, bisogna capire cosa il grande genio siciliano ha voluto dire e a volte penso che l’unico modo sarebbe stato quello di farselo spiegare da lui. È un grande italiano che ci ha dato onore e lustro, evviva don Luigi, evviva la Sicilia».

Massimo Ranieri in “Il Gabbiano (à ma mére)” da Cechov, con Caterina Vertova nel ruolo di IrinaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA