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Davide Tanasi, l’archeologo che dagli Stati Uniti svela la Sicilia antica

Di Redazione |

Paradossi italiani: per portare avanti i suoi innovativi studi sulla Sicilia antica utilizzando le tecniche dell’archeometria, dell’archeologia digitale e di quella biomolecolare di cui è stato uno dei pionieri, un archeologo siciliano si è dovuto trasferire all’University of South Florida a Tampa, dove oggi, dopo 2 anni e mezzo, è assistant professor e dalla fine dell’estate sarà associato. Davide Tanasi, 45enne di Noto ma catanese di adozione, si è laureato a Catania in Lettere classiche con indirizzo archeologico, poi ha conseguito la specializzazione a Torino, quindi il dottorato sempre a Torino, rimanendovi per altri due anni con una borsa post doc; poi è tornato a Catania per un’altra borsa post doc di un anno, lavorando infine in Sicilia, dal 2010 al 2015, per la Arcadia University (ateneo Usa che offre programmi permanenti per studenti americani nel mondo, tra cui in Sicilia). Infine la decisione di espatriare, con l’appoggio della moglie Denise Calì, archeologa etnea che come lui oggi lavora all’University of South Florida («Se sono arrivato dove sono, lo devo a lei»), e con i loro due figli che oggi hanno 6 e 8 anni, per portare avanti le proprie ricerche con i necessari fondi e strumenti. «Sono uno specialista – racconta – di archeologia e storia della Sicilia dalla preistoria all’epoca greca, romana e medievale. Ciò che caratterizza il mio curriculum – e che poi mi ha reso appetibile per le università Usa – è che mi sono specializzato in due settori molto innovativi e interdisciplinari dell’archeologia: quella digitale, cioè l’applicazione di tecnologie digitali per documentare, analizzare, interpretare il patrimonio archeologico e poi disseminarlo online, e l’archeologia biomolecolare, che è lo studio della nutrizione e del cibo nell’antichità». In particolare, nell’ambito dell’archeologia biomolecolare Davide Tanasi utilizza tecniche chimiche sia per lo studio dei residui organici sulle ceramiche archeologiche sia per l’esame di reperti scheletrici umani di epoca greca e romana in Sicilia: «Il tutto si inquadra in un grande progetto per ricercare le origini della dieta mediterranea e per provare la presenza di relazioni nell’antichità tra un certo tipo di dieta e l’insorgenza di alcune malattie». A spingere non è solo la curiosità, ma la necessità di rispondere a domande sulla struttura della società, l’accesso alla ricchezza e quindi «a beni culinari importanti come ad esempio il pesce di acqua salata e i frutti di mare il cui consumo, nonostante la Sicilia sia un’isola, nelle popolazioni antiche siciliane era molto limitato. Infatti, il pesce per essere conservato doveva essere salato e disseccato e nell’antichità il sale era un bene molto prezioso e costoso che pochi potevano permettersi. Ho studiato una necropoli della fine del VI secolo a Siracusa: facendo analisi isotopiche sui campioni scheletrici degli individui trovati nelle tombe ricche, abbiamo dimostrato come questi avevano avuto una dieta molto varia (uova, vegetali, carni rosse e bianche, frutti di mare e pesce), mentre quelli sepolti nelle tombe più povere sostanzialmente erano vegetariani. Non solo: analizzando da un punto di vista antropologico le ossa, si scopre che chi ha dovuto seguire una dieta vegetariana ha subito stress fisici ed è morto prematuramente, perché un tipo di dieta non completa determina indebolimento e insorgenza di malattie. Ecco che da lì nasce lo studio del rapporto tra la dieta e le malattie». Fino alla scoperta in due individui trovati nelle catacombe di Santa Lucia a Siracusa che avevano seguito una dieta particolarmente povera, di «evidenze della febbre del legionario, malattia nota per essere emersa per la prima volta durante la prima guerra mondiale e diffusa da un particolare tipo di pidocchio che trova terreno fertile quando ci sono situazioni misere di vita».

L’altro ramo in cui si è specializzato – sempre da autodidatta – Davide Tanasi è quello dell’archeologia digitale, cioè «l’utilizzo di tecnologie digitali per la documentazione, lo studio e l’analisi del patrimonio archeologico. Utilizziamo scanner 3D per documentare siti archeologici, monumenti di grandi dimensioni o manufatti archeologici all’interno di musei e collezioni, creando modelli 3D ad altissima risoluzione che utilizziamo per rispondere a domande di ricerca (ad esempio il modo in cui un vaso è stato realizzato, se ci sono più mani di pittura, per rilevare micro-impronte digitali e palmari che permettano di identificare un determinato artista). Quando documentiamo siti archeologici, invece, i modelli 3D diventano le basi per la ricostruzione virtuale, partendo dalla scansione dell’esistente». Con due scopi: la conservazione in replica digitale del monumento, nel caso in cui dovesse subire danni. Ma non solo: «Con questa tecnologia rendiamo accessibile ciò che è inaccessibile. Lo straordinario patrimonio archeologico siciliano è conosciuto soltanto da chi viene in Sicilia. L’alternativa è avere modelli 3D ad alta risoluzione online che possono essere osservati (ma non scaricati) da chiunque in ogni parte del mondo. Nel 2017 abbiamo fatto la scansione 3D integrale della Villa del Casale di Piazza Armerina e, attraverso il nostro modello 3D, chiunque può entrare all’interno del sito e muoversi da solo nella villa, guardare i mosaici da vicino. Lo facciamo anche per dare una spinta al turismo siciliano: gli studi provano che se una persona normale interagisce con un modello 3D di un bene culturale, poi sviluppa un interesse per andare a vedere di persona il sito». Resta il fatto che, per studiare la Sicilia antica, Davide Tanasi ha dovuto fare le valigie: «Il motivo è semplice. Per fare ricerca di qualità in settori interdisciplinari con alto impatto tecnologico c’è bisogno di fondi, di una mentalità aperta, di essere predisposti a lavorare in squadra, tutte cose che purtroppo negli atenei siciliani non ci sono. Io ho lasciato la Sicilia perché la mia ricerca si era impantanata e non avevo più i mezzi per portarla avanti. Qui ho invece fondi e supporto di colleghi di altre discipline e dipartimenti. Sono arrivato in Florida soltanto due anni e mezzo fa, eppure già ho fatto tanto. Ho fondato due centri di ricerca: uno per l’archeologia digitale (Idex: Institute for Digital Exploration) e uno per l’archeologia biomolecolare (Center for Food and Wine History), creando due squadre con cui attiriamo fondi e sviluppiamo progetti di ricerca, che poi hanno clamorosi risultati». Come la scoperta del vino più antico d’Europa in un sito a Sciacca, dell’olio più antico d’Italia in un sito a Castelluccio in provincia di Siracusa, la pubblicazione del primo studio pilota sulla nutrizione nella Sicilia greca e quello in pubblicazione nella Sicilia romana col caso più antico di febbre del legionario. Per non parlare della virtualizzazione della Villa del Casale e di altri siti». Di contro, negli atenei siciliani «scattano dei meccanismi di invidia: nel momento in cui uno parte, viene colpevolizzato e marginalizzato». Invece, altri enti, come ad esempio «il Polo archeologico di Enna, il museo archeologico di Aidone, il museo di Marsala, la soprintendenza di Catania, il Polo archeologico etneo stanno utilizzando i nostri prodotti per rafforzare il loro apparato didattico in loco». E restano i rapporti di collaborazione strettissima «con colleghi informatici, geologi, fisici dell’ateneo di Catania. Come mentalità e forma mentis collaboro meglio con chi si occupa di scienze dure, dove esiste la mentalità di lavoro di gruppo che nel settore umanistico ancora non c’è».

Eppure, anche da Davide Tanasi arriva l’usuale conferma che i suoi studi in Sicilia sono stati «validissimi: la preparazione universitaria italiana è di gran lunga superiore a qualsiasi altra al mondo, una persona che si è formata in Italia è destinata ad eccellere all’estero. E soprattutto noi siciliani siamo molto creativi e intraprendenti nella ricerca, essendo sempre stati abituati a fare tutto con poco». Peccato, però, regalarli all’estero non appena formati: «In realtà – sottolinea Davide Tanasi – il termine fuga dei cervelli fa più male a chi se ne è andato. Chi lascia, va via perché vuole portare la propria ricerca a un livello più alto o non ha più alternative o non ha potuto trovare lavoro. La verità è che il sistema universitario italiano è profondamente inquinato da clientelismo, nepotismo, corruzione, per cui è difficile per uno bravo trovare opportunità e, quando riesce a trovare sistemazione, reperire i fondi necessari per fare ciò che vuole. La combinazione di questi due fattori spinge sempre di più giovani ricercatori a cercare alternative». E a non guardarsi indietro: «Io in Sicilia torno tutte le estati per un mese e mezzo, in parte per vacanza e per vedere la mia famiglia, in parte perché porto i miei studenti a fare un programma di archeologia e storia della Sicilia. Però se mi si chiede: torneresti in Sicilia se ci fossero le condizioni, una posizione per te, io direi di no perché so già che l’università in Italia non mi potrebbe mai dare quello che io ho qui: l’autonomia, l’indipendenza, la libertà di pensiero e di ricerca, il supporto economico, scientifico e tecnologico». E allora ai giovani siciliani consiglia «di non accontentarsi mai: accontentarsi è un verbo molto brutto che quasi mai corrisponde alla felicità. Io consiglierei loro di perseguire le loro aspirazioni e sogni, facendo tutto ciò che è necessario, eventualmente anche trasferendosi all’estero». Trasferimento sempre molto difficile e traumatico «perché si va in un posto in cui c’è una cultura, uno stile di vita, abitudini, lingua differenti dai propri e non c’è un comitato di accoglienza a darti supporto, amore, amicizia e a spiegarti come funziona il mondo lì. È una esperienza solitaria e molto dura, una strada tutta in salita. Però dopo i primi sei mesi il buio scompare ed è luce piena: qui si vive molto bene». Studi umanistici sempre fanalino di coda, comunque, negli sbocchi lavorativi: «Così è ovunque, sono gli studi scientifici a tirare la volata degli investimenti. Lo dico sempre ai miei studenti, soprattutto a quelli che vogliono fare archeologia, che l’unico modo per avere più opportunità è abbracciare un approccio interdisciplinare. E quindi, per quanto riguarda l’archeologia, occuparsi o di archeometria o di archeologia digitale, acquisendo abilità in settori come la chimica, la fisica, la biologia, le scienze e l’informatica che possono essere esportate in qualsiasi altro settore. Il che consente, al di là della carriera accademica, di trovare lavoro come curatore di un museo, restauratore, tecnico di laboratorio di chimica». Oggi esistono peraltro specifici corsi di laurea, ma Davide Tanasi, 13 anni fa, è stato autodidatta: «In particolare nel 2006 ho iniziato un rapporto di amicizia e di grande collaborazione professionale con un collega informatico dell’università di Catania, il prof. Filippo Stanco, oggi professore associato nell’ateneo etneo. Io ho sempre avuto un interesse verso la tecnologia e l’informatica e lui ha sempre avuto un interesse verso i beni culturali. Da allora non abbiamo mai smesso di collaborare, anzi l’anno scorso abbiamo realizzato insieme una ricerca di informatica applicata ai beni culturali per la realizzazione di un sistema che riconosca automaticamente il colore sui manufatti archeologici. E ora ho iniziato l’iter di registrazione del brevetto del sistema».

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