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«Hai patteggiato e sei sbirro», così il clan voleva uccidere il boss “inaffidabile”

Di Fabio Russello |

Inadeguato e in malafede. Peggio “uno sbirro”. Giovanni Niosi (nella foto), reggente del mandamento di Resuttana, ex vigile del fuoco con la passione per il cinema, non piaceva agli uomini del clan.

“Già non se ne può dirigere una barca e ne vuoi dirigere cinque barche” diceva Sergio Macaluso sfogandosi con Massimiliano Vattiato, referente mafioso del quartiere Zen di Palermo. Per lui Niosi non era in grado di operare trasversalmente su due mandamenti, ovvero le famiglie mafiose di Resuttana, San Lorenzo, Pallavicino/Zen, Tommaso Natale e Partanna Mondello. Così per Niosi era già stata firmata la condanna a morte, sventata grazie anche alla mediazione del vertice del mandamento di Porta Nuova, Paolo Calcagno.

E’ uno dei retroscena dell’operazione antimafia Talea eseguita dai carabinieri del nucleo investigativo di Palermo. A Niosi venivano contestate diverse mancanze. Innanzitutto aveva patteggiato una pena durante il processo scaturito dall’operazione Addiopizzo 5. Una scelta che violava i pilastri del galateo mafioso a cui deve attenersi ogni uomo d’onore. “E’ uno sbirro – dicevano i boss intercettati – Mai ammettere di far parte di Cosa nostra… Pure i bambini lo sanno”.

Ma non solo. Il sospetto era che il reggente del mandamento di Resuttana che aveva scalato il vertice di Cosa nostra grazie all’interessamento di Mariangela Di Trapani, moglie del boss Salvino Madonia, il killer dell’imprenditore antiracket Libero Grassi, si fosse appropriato di denaro destinato alle famiglie dei detenuti. In particolare in un caso scattò una vera e propria indagine interna per verificare l’attendibilità delle lamentele del figlio di un boss detenuto.

“Sergio Macaluso, che in passato aveva già consegnato somme di denaro destinate esplicitamente al mantenimento di Tommaso Contino – spiegano gli investigatori dell’Arma -, tratteneva in una circostanza parte del denaro proveniente dall’attività estorsiva, rifiutandosi di consegnarla a Giovanni Niosi, temendo che questi se ne potesse appropriare, così come avvenuto in altre circostanze”. Inoltre, Niosi avrebbe gestito le attività del mandamento, e in particolare le estorsioni, tenendo all’oscuro gli altri affiliati che non erano quindi in condizione di valutare la consistenza della cassa mafiosa. Da qui la decisione di destituirlo. Una decisione lunga e complessa, che avvenne dopo il placet di Mariangela Di Trapani e grazie anche alla mediazione di Paolo Calcagno, reggente del mandamento di Porta Nuova, sino al suo arresto nel dicembre del 2015 nell’ambito dell’operazione Panta Rei, che bloccò la condanna a morte di Niosi, “sponsorizzando” invece il suo demansionamento.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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