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L'inchiesta

Vecchi boss e funzionari collusi: così la mafia “coltiva” il terrore e prende i fondi Ue

Il sistema criminale: Dai pascoli abusivi alle violenze. Le minacce dei clan per ottenere i soldi da Bruxelles

Di Laura Distefano |

Si muovono in modo silenzioso. Con i bastoni da pastore e le scarpe sporche di fango. Dietro hanno menti raffinatissime che indirizzano le azioni finanziarie. Illecite. Nulla di nuovo. Vecchi metodi, terrore e controllo mafioso, che si incastrano con nuovi modelli d’arricchimento. Rubano soldi pubblici. Il denaro destinato alla collettività finisce nelle tasche delle consorterie criminali. Il funzionamento del sistema lo hanno svelato le inchieste delle Dda siciliane, Messina e Catania in particolare.

Il clan dei Tortoriciani

“Maestri” del crimine sono i Tortoriciani del Messinese, ma anche i Santapaoliani che operano tra Nebrodi ed Etna e i clan catanesi che “governano” la piana etnea hanno dimostrato di saper aggirare le norme e ottenere le risorse europee destinate all’agricoltura. La legge antica del latifondo, nell’accezione negativa del darwinismo che eguaglia il più forte con il più violento, sopravvive. Una sopravvivenza dettata dalla capacità di adeguarsi all’evolversi dei tempi. Digitali ed economici. E la mafia ne approfitta. Riempie i vuoti creati dall’omertà. Di chi non comprende che il motto «vivi e lascia vivere» è la linfa vitale dei boss che da una parte sono rimasti ancorati alle forme più pericolose della mafia ma hanno capito che bisogna avere al proprio servizio un esercito di colletti bianchi, tra funzionari, commercialisti, consulenti. E anche qualche amministratore. Alcune volte basta semplicemente essere distratti e non collusi. I ciechi consenzienti sono i primi amici dei mafiosi. Le mosse nello scacchiere sono poche e semplici.

I boss rurali

I boss “rurali” devono farsi riconoscere. Chi vive, chi lavora, chi vuole investire deve sapere chi è “il padrone” di una determinata area. O la morsa del potere avviene in modo violento: messaggi intimidatori, piccoli danneggiamenti, furtarelli, roghi. La guardiania vive ancora in alcune zone. Un modo più veloce per ottenere un doppio vantaggio: soldi fissi ogni mese e imprenditori agricoli – già sottomessi – che non avranno remore a mettere firme qua e là in diverse pratiche. Poi c’è il meccanismo più subdolo: nei terreni privati inizia a pascolare bestiame. Nelle proprietà compaiono all’improvviso recinti fatti con filo spinato e assi di legno. Persecuzioni costanti e fastidiose. E per chi denuncia o cerca di contrastare arrivano le aggressioni fisiche, le minacce di morte. Alla fine i criminali ottengono la resa: false attestazioni per ottenere i fondi Agea o addirittura proprietà “svendute” per poter accedere sempre ai finanziamenti europei.

Dietro c’è la mafia

Dietro ci sono i clan mafiosi. Non ci sono dubbi. Le Prefetture si sono attrezzate con strumenti, anche normativi, per fermare questo drenaggio di liquidità pubblica verso le casseforti della criminalità organizzata. Ma i mafiosi, con la complicità dei colletti bianchi e dei funzionari infedeli, hanno trovato il trucchetto per aggirare il controllo legislativo. E per raggiungere l’obiettivo illecito si è tornati al mezzo del terrore. La violenza più bieca e cruda. Spietata. Interi patrimoni sono finiti in cenere. Mandrie uccise. Animali sgozzati.

Migliaia sotto il giogo dei clan

«Sono migliaia i produttori che subiscono il controllo delle cosche, attraverso minacce, soprusi ed estorsioni, soprattutto nelle regioni meridionali. Quello rurale, poi, è un mondo in cui vige ancora molto forte l’omertà rispetto a questo tipo di illegalità, come conferma il silenzio sull’abigeato», scrive Legambiente nel capitolo dedicato alle agromafie nella relazione annuale (l’ultima è del 2023) sugli ecoreati. L’associazione allarga lo spettro del controllo mafioso nelle filiere agroalimentari. «Le famiglie criminali hanno da tempo le mani sui mercati ortofrutticoli più importanti del Paese. Numerose inchieste hanno smascherato la presenza di ‘ndrine, camorristi e mafia all’interno dei grandi mercati di Milano, di Fondi nel basso Lazio, di Vittoria e nelle regioni del Sud, dove i boss comandano indisturbati». La mafia si sarebbe attrezzata anche per entrare nel mercato milionario internazionale del brand “Made in Italy”: «La presenza criminale è forte anche nella commercializzazione di alcune produzioni tipiche pregiate, a cominciare dall’olio di oliva, passando dal parmigiano reggiano alla mozzarella di bufala, dal pomodoro al vino, spesso utilizzando l’imbroglio del “falso Made in Italy” o del cosiddetto “Italian sounding” per conquistare importanti fette del mercato internazionale». In Italia si contano oltre 41mila reati accertaticon 26mila denunce, 77 arresti e 4mila sequestri.

E lo Stato?

L’azione dello Stato si sente. Anche se a volte è lenta. I boss finiscono in carcere. Centinaia gli imputati nel processo Nebrodi, ad esempio, che sono stati condannati. Il consiglio comunale di Randazzo, cittadina catanese, è stato sciolto per il rischio di infiltrazioni mafiose. Ed è accaduto proprio quando sono arrivate le prime condanne del processo “Terra Bruciata” frutto dell’inchiesta che ha decapitato il potere dei Sangani – alleati dei Laudani di Catania – in quel paradiso vulcanico. In quelle carte processuali si rimane paralizzati davanti all’indifferenza. Non sorprende il commerciante che per paura non ammette di pagare il pizzo. Anche se indigna. Ma fa paura il mormorio di sottofondo di chi sa, perché si sa, ma non ha mai denunciato. E un chiacchiericcio non è una prova che può far scattare una misura. E infatti sono arrivate le archiviazioni per una parte dell’inchiesta. Ma fare finta di non guardare rende meno complici?

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