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L’arte dei gemelli Ingrassia: quattro mani ma un’anima sola

Di Giorgio Romeo |

«L’arte è il luogo del raddoppio, dove anche la domanda doppia se stessa. Essa è qualcosa di talmente chiaro che nessuno la capisce». Quando chiediamo loro una personale interpretazione del concetto di arte, i gemelli catanesi Carlo e Fabio Ingrassia rispondono così. Probabilmente, il tema del doppio è per loro così tanto una costante da diventare chiara visione del mondo. 

Nati a Catania nel 1985 i due artisti hanno intrapreso un percorso di ricerca all’interno delle “grammatiche del colore” che li ha portati fino a far dissolvere la scultura nel tratto della matita, dove attraverso la saturazione e le velature del grigio, scaturisce il colore. I loro lavori sono realizzati simultaneamente a quattro mani: essi lavorano a pastello contemporaneamente sullo stesso foglio sfruttando la naturale predisposizione fisica derivante dall’essere uno mancino, l’altro destrorso.

Formatisi accademicamente a Catania, dove hanno conseguito la laurea specialistica in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti e il diploma in Discipline plastiche e Scultura al Liceo Artistico “M. M. Lazzaro”, i gemelli Ingrassia hanno avuto modo di esporre le loro opere in numerose collettive sul territorio nazionale e in alcune personali. A destra astrazione novecentista, a sinistra Rinunciare all’idea di un altro mondo (foto Brigantino)

Attualmente, e fino al prossimo 3 ottobre alcuni lavori dei due artisti sono esposti al Museo Civico di Castelbuono all’interno della personale “Solo la terra resiste alla terra”, a cura di Laura Barreca e Valentina Bruschi. La mostra prende spunto dalla prima antologica degli artisti, curata da Cornelia Lauf al Museo Macro di Roma l’anno scorso, e presenta sei opere – tra lavori bidimensionali e scultorei – la metà delle quali realizzate appositamente per l’occasione e pensate per gli spazi del primo piano del trecentesco Castello dei Ventimiglia, fortemente caratterizzato architettonicamente con archi e pareti in pietra.

La vostra opera è stata definita un dialogo continuo tra disegno e scultura. Come si sviluppa? «Lo straordinario alfabeto del disegno ci permette la materializzazione concettuale di qualsiasi cosa e la leggerezza della sua forma permette rapidamente qualsiasi scambio. Per dirla come Nistroy: abbiamo fatto un prigioniero e non ci lascia più andare».

Quanto è stato determinante, nel vostro percorso, lavorare in maniera simultanea e complementare? «È sempre un problema di costruzione. Da sempre abbiamo avuto un’attitudine al lavoro in quello che è l’ambito del fare, così si forma la volontà come messa in opera. Si deve creare un equilibrio dinamico tra ordine e disordine, solo così si crea l’informazione. Essa ha un senso oggettivo valido per chi è in grado di decifrarla di renderla cioè significante».

Congiunzione di due oceani -pastello su cartone Schoeller e pigmento (Purple) dimensioni variabili 73×102 cm 2016 (foto Brigantino)

E come si fa a trovare un punto d’incontro quando, magari, le vostre idee non coincidono da subito? «Anche nel sadismo si è sempre in due. In questo procedere ci siamo incontrati, nasce un dialogo, si apre una trattativa, una discussione, un equilibrio spesso compromesso, che cerchiamo di risolvere sul lavoro di volta in volta, un gesto su misura. Spesso e non solo per motivi legati al lavoro, riteniamo, che gli scontri tra noi siano indispensabili per mantenere in vigore funzioni logiche. La forma infine ci mantiene identici a noi stessi».

Quale tecnica utilizzate per trattare i colori in maniera così singolare, al punto di creare un tratto che non è tratto? «Meticolose stratificazioni a pastello su cartone e tocchi sempre puliti e calibrati. Gesti scultorei come l’azione del frammentare la carta e precisi strumenti, sono sintomatici del tentativo di decifrare, interpretare e bloccare porzioni di realtà estrapolate da un contesto che si fa tangibile. Immagini in movimento, che si riversano in un contesto urbano in perenne mutamento. C’è forse anche un’attitudine particolare a voler andare oltre il senso del luogo, nella sua scala dimensionale-ascensionale che va dalle superfici, alle barriere dei confini geografici, passando per l’estensione di assi urbani sua periferia inglobando al contempo edifici vecchi e nuovi, residui in potenza e forme in itinere della molteplicità che ci circonda. Un gesto misurato e preciso, che si esegue con minuziosa costanza, quasi alla stregua di un’operazione scientifica dalla quale nascono piccole unità disegnate a pastello su cartone Schoeller e struttura lignea patinata».

Rinunciare all’idea di un altro mondo Piroclasto (vulcanic boom) 43x27x21 cm vetro 180x98x22 cm 1669 – 2016 (foto Brigantino)

Esiste tra i vostri lavori uno che oggi ritenete sintetico della vostra esperienza? «Ogni esperienza nasconde una trappola, l’artista è qualcuno che comincia da zero. Ciò che ci auguriamo nel rapporto con l’opera è di essere autentici. Il nostro coinvolgimento serve a ordinare e riordinare il sapere, è questa la funzione più importante relativa alla conoscenza. L’entusiasmo reprime non solo gli affetti dell’opera, ma anche le sue emozioni. L’autenticità dell’opera, così come quella dei sentimenti, non è mai continua ma avviene nei momenti nodali, nelle situazioni conflittuali: ciò che l’autore vorrebbe aggiungervi viene respinto, ciò che egli vorrebbe respingere gli viene imposto. Noi siamo dei portavoce».

Al “Macro” avete presentato i vostri primi dieci anni di lavoro. Cosa è cambiato, in questo lasso di tempo, nelle vostre opere e nel modo di concepirle? «La buona e ordinata costruzione di un quadro si fa riducendo il problema ad un rapporto di quantità. È cambiato lo spazio del quadro, che si è dilatato. Per fare un esempio, potremmo dire che è come se si lanciasse un sasso nello stagno, i cerchi che formerà l’acqua non sono sempre delle stesse dimensioni, ma via via cresceranno, a formarne sempre nuovi, sempre diversi. Parlare del Macro per noi non è stato un privilegio per pochi ma soltanto un raccordo».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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