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Crocetta, Lucia e la frase falsa che cambiò la nostra storia

Crocetta, Lucia e la frase falsa che cambiò la nostra storia

Il 16 luglio 2015 la bufera sull’intercettazione (poi rivelatasi falsa) di Tutino Ecco cos’è cambiato nell’Isola dove per scrivere la storia non serve la verità

Di Mario Barresi |

Il sole non vuol proprio saperne di nascondersi, mentre la cinquantesima Marlboro fa la stessa fine delle precedenti 49. Maciullata nel posacenere. Pollice, indice e medio spingono il mozzicone con violenza, quasi volessero bruciarsi. Auto-infliggersi un dolore per narcotizzarne un altro. Immane.

«Basta, datemi carta e penna. Ho deciso: mi dimetto…».
Come sarebbe oggi la Sicilia, se quel pomeriggio Rosario Crocetta l’avesse fatto davvero?
Era il 16 luglio 2015. Esattamente un anno fa.
Anche se sembra essere passato un secolo.
«Lucia Borsellino “va fermata, fatta fuori. Come suo padre”». Era l’incipit di un articolo de L’Espresso. Una frase attribuita a Matteo Tutino, all’epoca medico personale del presidente della Regione. Il quale, secondo la ricostruzione, «ascolta e tace».
L’intercettazione, dal punto di vista processuale, non esiste. La confermò il direttore del settimanale, Luigi Vicinanza. Ma la smentì la Procura di Palermo, così come fecero gli altri magistrati che in Sicilia stavano maneggiando il velenoso filone della sanità.
Non c’è. L’hanno cercata tutti; non l’ha trovata nessuno. La difesa di Piero Messina e Maurizio Zoppi – i due giornalisti per i quali i pm palermitani hanno chiesto il rinvio a giudizio per calunnia e procurato allarme – è convinta del contrario. E ha chiesto un nuovo incidente probatorio con la perizia di tutte le intercettazioni ambientali e telefoniche, dopo che è caduto il segreto istruttorio dell’indagine per truffa a carico dello stesso Tutino. Tanto più che, in attesa dell’udienza decisiva del prossimo 20 settembre, il gip di Palermo, nel non escludere «che l’espressione incriminata, o altra similare, possa essere stata pronunciata dal Tutino o da altri nel corso di una conversazione non compresa tra quelle allegate al procedimento», afferma che «certamente, tra le tante conversazioni intercettate, ve n’era almeno una in cui qualcuno aveva affermato che era necessario far fuori l’ assessore, sia pure in senso politico».
Ma non è cronaca, quella che vogliamo fare in queste righe.
Perché quell’intercettazione, falsa fino a prova contraria, ha scritto l’ultimo anno di storia della Sicilia.
Dapprima con i tormenti di un uomo – prim’ancora che di un governatore – chiuso in un bunker. Non a Palermo, né a Castel di Tusa. Ma a Catania, in via Gabriello Carnazza, una traversa del salotto cittadino di corso Italia. Spiaggiato, come un mammifero ferito a morte, sul chester bianco dello studio legale di Antonio Fiumefreddo. Da mezzogiorno a mezzanotte, le 12 ore più lunghe della vita di Crocetta. Cinque pacchi di sigarette nei polmoni e uno yogurt al cioccolato nello stomaco.
 
Tutta la vita davanti, gli passò. Con lui, oltre all’amico avvocato (oggi rimesso a capo di Riscossione Sicilia), soltanto il fedele segretario gelese, Peppe Comandatore. Poi, nel primo pomeriggio, arrivò il successore della Borsellino, l’assessore Baldo Gucciardi; renziano, ma a modo suo. E infine, alle 19, Patrizia Monterosso, sacerdotessa di Palazzo d’Orléans.
Rosario, quei quattro. E tutto il mondo fuori. Silenzi e merda, in quelle ore. Sì, perché un giorno chi scriverà la storia della Sicilia dovrà fare stretching delle cronachette di qualche ora di passione. Tutto via agenzie di stampa: dall’anticipazione dello scoop alle cosiddette reazioni, prima delle smentite del procuratore Lo Voi. In mezzo c’è un mondo. Le telefonate, soprattutto. Giammai a un qualsiasi usciere del palazzo di giustizia di Palermo per informarsi se l’intercettazione fosse autentica. Ma tutte a Lucia, vittima con la stessa rapidità con la quale Crocetta e il chirurgo plastico erano già carnefici. Chiamò il presidente Sergio Mattarella, per esprimerle «tutta la sua solidarietà»; il premier Matteo Renzi per mandarle «un abbraccio di solidarietà»; il ministro Angelino Alfano per significarle «sdegno» per «quelle parole che pesano in modo gravissimo e incancellabile sulla coscienza di chi le ha pronunciate». E poi i presidenti Pietro Grasso («parole schifose») e Laura Boldrini («parole inaudite e deprecabili»).
 
Niente è più vero di una bugia dalle belle gambe lunghe. Tant’è che la stessa Borsellino, magari già preparata da rumors di Palazzo e discorsi di famiglia, a caldo – prima di rifugiarsi a Roma, manager al ministero della Salute, senza voler vedere la Sicilia manco nella cartina geografica – si disse «intimamente offesa», ammettendo di «provare un senso di vergogna per loro».
 
Loro. Tutino, certo. Ma soprattutto Crocetta. Che, nella penombra del falso che assurge a vero, non disse «quelle parole non le ho mai ascoltate!». Si limitò, scoppiando in lacrime con i giornalisti al telefonino (prima che Fiumefreddo glielo requisisse), a balbettare: «Non ho sentito la frase su Lucia, forse c’era zona d’ombra». La stessa che c’è sempre stata nel suo rapporto col Pd. Nel pomeriggio del 16 luglio 2015, il partito del presidente – mentre Beppe Grillo in persona lanciava l’hashtag d’ordinanza: #crocettadimettiti – uscì al naturale. Come non mai. Come mai più.
Il re è nudo, il re è morto, evviva il re. Tutti, dal vicesegretario Guerini in giù, dissero cose che non avrebbero detto. Mai. Ma che pensavano. Da sempre. In un rito catartico e liberatorio. Nessuno – dall’antimafiosa Bindi alla friulana Serracchiani – si concesse il lusso del dubbio. Persino Beppe Lumia, Richelieu crocettiano per antonomasia (che dopo la smentita della Procura avrebbe chiesto indignato «chi risarcirà Rosario?») alle 13,43 di quel pomeriggio si affrettò a dirsi «disgustato» dalla frase. E dal silenzio pure? L’unico coerente con se stesso fu Faraone, che chiese – come prima, durante e dopo il caso Tutino – «le irrevocabili dimissioni» del governatore.
 
Cos’è cambiato, nella Sicilia – pirandelliana per definizione, brechtiana per vocazione – in questo breve e interminabile anno? Niente. O tutto. A Crocetta, che confessò di volersi suicidare, quella telefonata (falsa) ha allungato la vita. Le macchie sulla coscienza di alleati ipocriti e finti amici sono diventate – assieme all’idiosincrasia di Renzi per il voto, e magari la sconfitta, in Sicilia come a Roma – la migliore polizza sulla propria esistenza politica.
Un complotto? Non è dato saperlo. Ma di certo se volevano farlo fuori politicamente, non ci sono riusciti. L'”attentatuni” mediatico, se davvero ci fu, fallì. Il resto, forse, lo racconteranno le cronache giudiziarie.
 
E oggi – ripensandoci bene – è inutile chiedersi cosa sarebbe successo se Crocetta le dimissioni le avesse date davvero; se avremmo avuto a Palazzo d’Orléans un viceré renziano o un apriscatole grillino; se saremmo ancora sommersi dai rifiuti o con un buco miliardario per cui mendicare rattoppi a Roma.
La storia non si fa con i se, né con i ma. In Sicilia basta il verosimile. Meno del vero, più del falso.
Come finì?
 
La Borsellino ha subito lasciato l’Isola, ma i suoi nemici sono rimasti tutti qui; molto tempo dopo anche il direttore de L’Espresso, ha lasciato la direzione, ma non il settimanale, per il quale non firmano più Messina e Zoppi che vivono fra studi legali e nuove attività enogastronomiche; Tutino ha lasciato la cartella clinica del governatore, ma non i guai con la giustizia.
 
E Crocetta è sempre lì.
Più forte fuori. E più debole dentro. Soprattutto quando ripensa a quel pomeriggio, alla carta e alla penna chieste per firmare le dimissioni, alla processione della Madonna del Carmelo a cui, infine, non andò. Ricorda, si commuove e s’incazza ancora. Poi alza gli occhi. E accanto a sé vede pochi amici e molti cortigiani. Gli stessi di un anno fa.
Twitter: @MarioBarresi
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