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La storia di Nanà e di una sfida contro il fato

Il nuovo libro di Silvana Grasso “Distìno” ambientato nella Sicilia più intima e vera ha per protagonista una bambina che a 8 anni non cresce più e vive nella profonda solitudine

Di Marcella Natale |

Sarà presentato mercoledì prossimo, 8 novembre, a Riposto (Sala del Vascello del municipio) “Distìno”, un racconto di Silvana Grasso, terzo volume della raffinata collana Archivio Silvana Grasso, testi rari e con prestigiosa curatela critica, che la casa editrice Ets, dopo Elsa Morante, ha interamente dedicato alla nostra scrittrice, collana diretta dai professori Marco Bardini, dell’Università di Pisa, e Gandolfo Cascio dell’Università di Utrecht.

L’evoluzione di Nana Nanà

La protagonista del racconto “Lei, Sebastiana Nana Nanà, questa era stata nel tempo l’evoluzione del suo nome” è una bambina di un paese imprecisato della Sicilia, che ad otto anni non cresce più: rimane un metro e venti di altezza, ma con un corpicino delizioso, ben proporzionato. Per un capriccio della Natura, che “se ne fotteva degli uomini” Nanà – della quale nulla viene riferito della famiglia, non ha amici, non ha legami, e conduce la sua vita sempre sola con se stessa, incantata dalla Bellezza dell’universo e tutta immersa in continui calcoli matematici che diano misura e senso al suo vivere stesso. Osserva, conta, riflette e pensa, vivendo una interiorità ricca e profonda. Nanà infatti si basta: quando c’è un cervello e un cuore smisurato, l’individuo non ha bisogno degli altri, può costruirsi una vita a sé “gli occhi di Nanà figliavano sagome colori geometrie spigoli, tralci di vita finta ch’erano assai meglio della vita vera”. Crescendo, grazie alle sue manine piccole diventa assistente della levatrice del paese. Manine dalle dita sottili “come l’uncinetto da lana”, manine che si fanno “varco tra sangue carne e viscere” per liberare il nascituro dal buio della cavità uterina e portarlo alla luce. Le manine di Nanà che non è mai diventata donna e mai potrà essere madre, sono lo strumento magico del mistero della nascita, del venire alla luce. A trent’anni Nanà finalmente si conquista un posto autonomo nella comunità: dopo aver fatto partorire una cavalla che stava morendo, diventa una sorta di veterinaria levatrice, e il nuovo ruolo, che gestisce in autonomia, le assicura buona reputazione e guadagni, ma una solitudine ancora più fitta e cercata.

Il “distino”

Il “distino” ha già scritto la sua vita? No, Nanà vuole scrivere da sé la sua vita, vuole darle la forma che decide lei. Inizia dunque un duello a due, tra la protagonista e il “distino”, una sfida giocata sulla contrapposizione tra uomo e fato.Il racconto prende per mano il lettore e lo conduce nel mondo di Silvana Grasso, la Sicilia più intima, più vera, il mondo rurale degli archetipi che poi diventano simbolo per la comprensione dell’universale. La Sicilia e i suoi personaggi che sono la metafora della condizione di dolore universale che caratterizza l’umano, che non ha nessuna possibilità di essere felice, perché è un essere finito che aspira tragicamente all’Infinito.Non c’è scampo alla solitudine, c’è solo la possibilità, con la propria intelligenza, di costruirsi una vita interiore autonoma, e la solitudine di Nanà ricorda lo strazio vitale del Minotauro di Dürrenmatt, la pacatezza dell’Asterione di Borges. Esseri mostruosi nella loro forma inaccettabile per la banalità dell’uomo comune, ma eroi dall’animo gigantesco.

La solitudine dell’individuo

Anche l’uomo che Nanà incontrerà in seguito è una persona sola, che vive in simbiosi d’amore con il suo clarinetto, e che ha bisogno degli altri soltanto per la sussistenza materiale.La solitudine dell’individuo è talmente profonda che nulla può esistere, che la possa alleviare e raddolcire. «Certo che botta di culo sarebbe stato essere come il Sole, pensava Nanà alzandogli gli occhi al cielo da sotto il vecchio carrubo, mentre nella sua testa moltiplicava divideva sottraeva sommava numeri avidamente, provando persino maggior piacere che per i fichi bianchi, da sempre la sua passione specie se per gravidanza di sole avevano la spaccuzza con la lacrima di latte profumato».La lingua di Silvana Grasso, sulla quale tanto è stato scritto, è materia viva di parole colte e di termini tratti dal dialetto siciliano, che la scrittrice plasma come fosse una alchimista, ma in “Distìno” è una lingua diventata più misurata ed accessibile, quasi a voler essere un ponte con i lettori, incantesimo da condividere per cercare di instaurare un legame nella totale incomunicabilità del reale.Il titolo “distìno” è la parola chiave che con la sua prepotenza risuona continuamente nel racconto, la parola che mette a fuoco il mondo concettuale della scrittrice, un mondo in cui ogni uomo è chiamato a rivestire un ruolo forse predestinato, ma mai accettato senza combattere e senza lottare, la parola della sfida continua dell’uomo con l’imponderabile.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA