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Quando il principe Tomasi di Lampedusa uccise un nemico austroungarico

Quando il principe Tomasi di Lampedusa uccise un nemico austroungarico

L’autore del Gattopardo partecipò alla Prima Guerra Mondiale: uccide

Di Salvatore Scalia |

Della sua partecipazione alla Grande guerra il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) lasciò rare testimonianze scritte. Un accenno si trova nel racconto autobiografico “I luoghi della mia prima infanzia”. Ed è come se lo scrittore lasciasse cadere di sfuggita un ricordo sbiadito per rafforzarne un altro ben più vivo nella memoria. Descrivendo un salone del palazzo di Santa Margherita Belice, enumera i trofei di caccia, le bilance e i misurini per preparare le cartucce, infine le rastrelliere con i fucili che gli risvegliano un’emozione ancora forte, fu con uno di questi, per signora e “a due canne rigate riccamente damaschinate”, che da bambino sparò i primi e ultimi colpi da cacciatore, “uno dei barbuti campieri mi costrinse a sparare contro alcuni innocenti pettirossi, due, sventuratamente, caddero, con del sangue nelle tepide piumette grigie: e poiché palpitavano ancora, il campiere stritolò loro la testa fra le sue dita”. Nonostante le letture eroiche di vittorie, di conquiste e di spade rosseggianti del sangue dei nemici, la scena gli fece orrore, andò dal padre, “al cui ordine si doveva questa strage degli Innocenti”, e gli annunciò che mai più avrebbe sparato a nessuno. Dopo questo fiero proponimento, affiora il ricordo di guerra: “Dieci anni dopo dovevo uccidere con una pistolettata un bosniaco e chissà quanti altri cristiani a cannonate. Ma non ebbi il decimo dell’impressione che mi fecero quei due miseri pettirossi”. Poche sbrigative parole per la morte di un uomo, anche se un nemico: non c’è pietà, né commozione, né tantomeno il richiamo all’innocenza tanto più che la vittima era un musulmano del multietnico Impero austro ungarico. Ed è con questa simulazione d’indifferenza che lo scrittore c’instilla l’orrore per la guerra colpevole di ottundere la sensibilità, di trasformare l’uomo in automa, in macchina programmata per produrre morte. Con un atto di volontà il piccolo principe aveva potuto sottrarsi al destino di cacciatore, che il blasone nobiliare gli imponeva, ma in trincea non ha scampo, diventa una rotella dell’ingranaggio mostruoso della nuova era del macello tecnologico. Figlio unico, di formazione cosmopolita, Lampedusa non aveva spirito eroico né alcun entusiasmo nazionalistico per la guerra. Fu chiamato alle armi il 27 novembre del 1915. Partì volontario, ma non il volontariato degli esaltati, che s’illudevano sulla guerra rigeneratrice del mondo, bensì quello dei ricchi privilegiati che a pagamento ottenevano una riduzione della leva da tre a un anno. Fu inviato a Messina, poi, divenuto caporale, ad Augusta, al comando del tenente Enrico Cardile, poeta di origine messinese, ammiratore dei simbolisti, amico di Lucini, per un breve periodo futurista e poi spregiatore del “ridicolo” Marinetti. La madre trattava Lampedusa come un bambino, correva da lui se si ammalava, nelle lettere lo chiamava con epiteti tenerissimi, volti anche al femminile: “Pony mia cara e bona”, “Ponuzzo mio dolce”, “Pony mia”; e, tra un pettegolezzo e l’altro sul bel mondo di Palermo, gli scriveva: “Io, erro sempre come trasognata e non vedo l’ora di liberarmi dagli impicci per correre ad Augusta”. Nell’autunno del 1916 fu inviato al corso allievi ufficiali a Torino e divenne sottotenente di complemento. Rischiò di finire in fanteria. La madre era allarmata e per lettera lo invitò a trovare qualsiasi espediente per evitarlo: “Investiga e cerca tutti i modi per ingannare la legge”. Fu assegnato al Primo reggimento di artiglieria campale, il 25 settembre era già al fronte. L’esperienza di combattente durò poco: l’undici novembre, dopo la disfatta di Caporetto, fu preso prigioniero. Finì nel campo di Szombathely in Ungheria. Vi rimase per un anno con l’intermezzo di una fuga fallita. Nell’inferno della guerra e poi nella memoria, i mesi passati ad Augusta, brillarono come un’oasi refrigerante. In quel mare l’insigne professore Calaciura, protagonista del racconto “Lighea”, racconterà a Torino di avere incontrato nell’estate del 1938 la sua Sirena e di avere goduto di un amore sconosciuto ai mortali. Là vicino, a Punta Izzo, il suo giovane amico Paolo Corbera di Salina proiezione autobiografica di Lampedusa, aveva trascorso tre mesi da recluta, “è il più bel posto della Sicilia… il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna”. Incoraggiato dalla familiarità che gli concede l’illustre studioso del mito greco, aggiunge: “E’ uno di quei luoghi nei quali si vede un aspetto eterno di quest’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole”. I foschi bagliori della guerra sono eclissati da un’immagine edenica. L’ironia del destino concesse al futuro scrittore anche un epitaffio prematuro. A guerra finita, nel 1918, il tenente Cardile, credendolo morto, pubblicò sulla rivista “Aprutium” una poesia “Alba triste” dedicata “Al ricordo caro del mio caporale Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa, sperduto presso Asiago”. Nei versi una pietà universale accomuna tutti: si vedrà “il sangue gorgogliare, / e dentro, nel groviglio insanguinato, / costretti nel medesimo dolore / un cuor di vinto e un cuor di vincitore! ” Lampedusa, raccontava la moglie Licy, avrebbe voluto scrivere i ricordi di prigionia, ma non si decise mai. Né tantomeno coltivò lo spirito del reduce. I suoi aspri giudizi sull’esperienza bellica sono espressi sulla rivista genovese “Le opere e i giorni” nel maggio del 1926, in un articolo sui racconti giovanili dello scrittore francese Paul Morand dedicati al dopoguerra. La Grande guerra ha dissipato ogni illusione: “La frenetica propaganda di tanti avversari e la lunga doccia di acqua ragia alla quale fu sottoposta quella generazione disciolse molte verità…”. La guerra è passata come “onda di sangue e di lagrime”, lasciando rovine materiali, fisiche e morali. “Si fu in pochi nel ‘19 e nel ‘20 a non tentar di vendere sia pure un chilo di zucchero al quadruplo del giusto prezzo; e quanti furono coloro che in quegli anni non hanno avuto sulla coscienza una cartina di cocaina e un’avventura sudicetta? ” In quelle pagine lo scrittore nota con sarcasmo “che le recenti conferenze diplomatiche hanno gettato le salde basi dei conflitti futuri”. Quando nel 1940 l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale, Lampedusa fu richiamato e inviato a Poggioreale. Questa volta a confortarlo non andò la madre, ma la moglie Licy. Fu congedato dopo tre mesi in quanto conduttore di azienda agricola. Evitò il servizio militare, ma al nuovo tipo di guerra non si scampava, non esisteva più distinzione tra fronte e retrovie. I bombardamenti su Palermo lo colpirono nelle cose più care. In una lettera a Licy del 16 febbraio del ‘43 descrive scene raccapriccianti: un cocchiere dal ventre squarciato, i quattro cavalli neri accovacciati in un lago di sangue; sul dorso dei cavalli una gamba di bambino “venuta non si sa da dove”, un maggiore tedesco che soccorre una bambina “orribilmente mutilata”; e conclude con una riflessione di acre pessimismo: “M quando si vede quello che è successo si ha voglia di sputare sul proprio passaporto di uomo”. Il 2 marzo scrive: “Sono state le ore più brutte della mia vita, neanche al fronte ho mai sofferto niente di simile… Lo stato della città e della popolazione era tale che era impossibile trasportare i bagagli alla stazione. Così ho lasciato le due valigie grandi in deposito all’hotel e sono andato a piedi passando da via Roma, disseminata di tramway sventrati, di auto in fiamme e di viscere umane ed equine”. Poi ci furono il trauma e la ferita mai rimarginata. Nei “Luoghi della mia prima infanzia” lo scrittore descrive palazzo Lampedusa e ne esalta la bellezza che durò “sino al 5 aprile 1943, giorno in cui le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero”. In “Lighea” affiora il risentimento dello scrittore quando fa dire a Paolo Corbera che “i Liberators distrussero la mia casa”. Quelle bombe non avrebbero risparmiato nulla, profanando perfino la beata serenità degli dei. Nel “Gattopardo” al ballo dai Ponteleone le figure affrescate nel soffitto guardano gli ospiti dall’alto in basso ma sono destinate a soccombere alla guerra e alla tecnologia. “Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburg, Penn., doveva nel 1943 provar loro il contrario”. Dell’esperienza di guerra, del contrasto tra le teorie e la realtà, tra l’ordinata descrizione che se ne fa e lo scompiglio sul campo irriducibile a qualsiasi logica, si ricordò nel suo capolavoro, pubblicato postumo nel 1958, quando il principe di Salina tenta di rassicurare la figlia Concetta preoccupata per il cugino Tancredi aggregatosi nell’estate del 1860 ai garibaldini: aveva dato, in malafede, tante spiegazioni da “trasformare la guerra in un pulito diagramma di linee di forza da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è”. Il fetore e il disgusto della trincea, il ribrezzo alla vista dei corpi straziati, l’orrore per gli effetti dei bombardamenti su Palermo si sarebbero fusi nel “Gattopardo” nella descrizione di quel soldato che nel 1860 va a morire nel giardino del principe di Salina, “il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto di formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera”.

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