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Così l’Etna si “ricarica” in due minuti

Di Carmen Greco |

Quanto impiega l’Etna per “ricaricarsi” tra un’eruzione e l’altra? Lo svela uno studio dell’Università di Catania grazie al quale sono stati calcolati i tempi con i quali si innescano, ovvero si “mettono in moto”, le eruzioni più violente, quelle che hanno caratterizzato (e ancora caratterizzano) l’attività eruttiva del vulcano negli ultimi anni.

La ricerca, che ha applicazioni su qualsiasi altro vulcano a scala globale, è stata pubblicata il mese scorso su “Nature scientific report”, rivista internazionale di grande visibilità e risonanza nel mondo scientifico e apre le porte ad una maggiore conoscenza nel campo della valutazione dei rischi legati alla presenza di vulcani attivi nelle zone abitate.

Lo studio (si intitola “Ultrafast syn-eruptive desassing and ascent trigger high-energy basic eruption”) è firmato da Marco Viccaro, prof. di Vulcanologia dell’Università di Catania, dalla ricercatrice Marisa Giuffrida, e da Luisa Ottolini del Cnr Igg (Istituto di geoscienze e georisorse) di Pavia, è frutto di un lavoro durato tre anni e ha preso in esame le eruzioni dal 2011 al 2013 (con qualche informazione anche su episodi più recenti fra il 2015 e il 2016).

«Abbiamo adottato un approccio all’avanguardia per quanto riguarda la frontiera vulcanologica – spiega il prof. Viccaro – e il nostro obiettivo era scoprire la tempistica con la quale si mettono in moto alcune eruzioni dell’Etna. In particolare tutta quella serie di eruzioni parossistiche, violente e improvvise che, dal 2001 in poi, hanno avuto una cadenza nel tempo, in totale abbiamo esaminato una cinquantina di episodi».

Quello che è emerso è che il “sistema Etna”, da uno stato di apparente quiete, si può riattivare in tempi velocissimi.

«Il processo di attivazione, in questo tipo di manifestazioni eruttive avviene con tempi nell’ordine di 1-2 minuti e velocità medie di risalita del magma che superano i 40 metri al secondo che portano poi ad uno stato di crisi di tutto il sistema di alimentazione del vulcano fino alla manifestazione dell’attività eruttiva vera e propria».

Sul piano pratico, quanto può essere utile conoscere queste tempistiche?

«Credo che l’importanza possa essere molteplice perché consentirà sia di comprendere meglio le “cinetiche” con le quali operano alcuni processi magmatici in profondità, sia di avere una maggior consapevolezza nella valutazione dei rischi associati alla presenza di vulcani attivi in aree densamente popolate. L’Etna è considerato un vulcano relativamente “buono”, con un’attività frequente che non causa, nella maggior parte dei casi, problemi gravi, se non quella di spargere ceneri nell’atmosfera, pensiamo alla chiusura degli aeroporti. Questi episodi di carattere “violento” possono avere tutta questa serie di ripercussioni sulle attività antropiche da quelle socio-economiche ai trasporti, all’agricoltura. Una volta le eruzioni non erano così. Si veniva da eruzioni “classiche” che, per esempio, non comportavano la chiusura degli aeroporti e non avevano ripercussioni sulla nostra vita quotidiana. Negli ultimi 5/6 anni tutto quello che riguarda i trasporti aerei o su strada è stato, invece fortemente condizionato da questi eventi. Ora, questa ricerca ci fornisce degli elementi per chiudere meglio un cerchio su quello che è la pericolosità reale di un vulcano come l’Etna».

La raccolta dei campioni di materiale piroclastico da parte dei ricercatori dell’Università di Catania

Vuol dire che l’Etna non è così “buono” come lo si dipinge?

«In realtà ci sono tutta una serie di rischi potenziali associati a questa attività che oggi, a mio parere, vengono scarsamente attenzionati. La novità sta proprio in questo: portare sul piatto della comunità scientifica la possibilità di avere degli eventi potenzialmente pericolosi che si possono mettere in moto in tempi molto rapidi. Questo è un elemento che, al servizio delle autorità preposte, può risultare utile nel campo delle politiche di protezione civile».

Per esempio?

«Può servire ad adottare strumenti di early warning (preallerta) che in materia di protezione civile si studiano tantissimo, pensiamo a tsunami, alluvioni, rischio frane etc etc. Si potrebbero studiare dei software o dei tools per prevedere questo tipo di attività eruttiva. Grazie ai passi da gigante che la vulcanologia ha fatto negli ultimi anni, sappiamo quando arriverà l’eruzione. Quello che ci interessa è capire cosa ci dobbiamo aspettare da questi episodi “violenti”. Quello che abbiamo fatto con questo studio è capire quali siano i “markers” (gli indicatori) che effettivamente portano, da un punto di vista dinamico del sistema magmatico, a questi tempi velocissimi di “ricarica».

Negli ultimi sei-sette anni come è cambiato l’Etna?

«Sicuramente è cambiata l’attività. Da gennaio 2011 a dicembre 2013 c’erano questi episodi ad alta frequenza di breve durata, nel 2014 c’è stato un “cambio”, prima una fase di stasi, e poi tra dicembre 2015 e maggio 2016, il risveglio del cratere centrale con le attività spettacolari che si sono viste. Nel 2017, infine, è cambiato di nuovo con un’attività che non è inquadrabile né in quella relativa alla “voragine” né in quella precedente ancora. Quindi, adesso, dobbiamo cercare di capire come si sta riconfigurando il sistema di alimentazione e quali possano essere in questi casi i markers (finger prints, dei parametri ben specifici) che ci possono dare delle informazioni in termini di precursori dell’attività».

Come si misura, nei fatti, la velocità di ricarica dell’Etna?

«È possibile ricostruire la configurazione geometrica dell’interno del vulcano, dove staziona il magma e, per esempio, quali livelli si attivano. Poi, possiamo assegnare a questa configurazione anche una “cinetica”, cioè vedere come si evolve nel tempo, come si muove questo magma. Vale a dire tutto ciò che è immediatamente pre-eruttivo».

Marco Viccaro, prof. di Vulcanologia dell’Università di Catania, autore dello studio pubblicato su “Nature”  

E queste informazioni chi ve le dà?

«Lo studio dei cristalli all’interno delle lave e dei prodotti piroclastici, “campionati” al termine di ogni attività eruttiva. Si raccolgono questi campioni e si analizzano in sezioni sottili, al microscopio, al microscopio elettronico, e con una microdonda ionica che ti dà la composizione della roccia, rivelando il riflesso di ciò che sta succedendo al magma in profondità. Così si riescono a derivare i parametri e si ricava la “tempistica” oggetto del nostro studio. L’analisi dei microvolumi, (sono proprio spazi nanometrici) all’interno dei cristalli di plagioclasio, ci consente di leggere la storia del cristallo e di vedere come è “cresciuto” man mano. Andando a ricostruire la sua velocità di diffusione si possono determinare le tempistiche ultrarapide di cui abbiamo parlato».

Quanti fondi sono necessari per uno studio del genere?

««Inutile negare che per spingere la ricerca verso questa frontiera siaono necessari fondi, così come è inutile dire che si possa fare ricerca senza. Basti pensare che noleggiare per un giorno la microsonda ionica che si trova a Pavia costa intorno ai mille euro e in un giorno analizzi solo un cristallo. Finora abbiamo potuto contare su delle collaborazioni e, in parte, sull’Università di Catania, in totale 26mila euro. Siamo in attesa di ricevere altri finanziamenti all’interno dei fondi Prin (Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale) che, se arriveranno, ci consentiranno di attivare dei progetti con la Carnegie Institution for Scienze di Washington».

twitter:@carmengreco612

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