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Libri, Vincenzo D’aquila, un pacifista alla guerra

Di Leonardo Lodato |

Fabrizio De Andrè, in fin dei conti, con “La guerra di Piero”, non ha inventato nulla. Ragazzi armati per sparare a ragazzi come loro. Sangue fratricida perché, da qualsiasi parte la guardi, la guerra è una guerra contro se stessi, contro l’umana specie. Ne sapeva qualcosa Vincenzo D’Aquila, palermitano, classe 1892, emigrato a New York, che nel 1915 parte, come tanti altri suoi coetanei per combattere una guerra nella guerra, quella che racconta in un crudo “diario” che Claudio Staiti ha recuperato e riportato alla luce in “Vincenzo D’Aquila – Io, pacifista in trincea – Un italoamericano nella Grande guerra” (Donzelli Editore).

Come è nata e come si è sviluppata la ricerca attorno al personaggio di Vincenzo D’Aquila?

«Ho scoperto questa storia per caso – spiega Staiti – quando ero alla ricerca di fonti per la mia tesi di dottorato che è su lettere, diari e memorie dei siciliani durante la Grande guerra. Nel 2017, per motivi di studio, mi trovavo alla Columbia University di New York e dato che la biblioteca del campus possedeva una copia del libro di D’Aquila, ho cominciato a leggerlo. Lì ho capito che valeva la pena che anche i lettori italiani lo conoscessero. Il testo, sebbene non raggiunge la massima qualità letteraria, è di una forte potenza narrativa e davvero impressionante anche sotto il punto di vista storiografico. C’è l’interventismo, la guerra, il pacifismo, l’emigrazione…».

Cosa ha spinto, D’Aquila a (non) combattere durante la Grande Guerra?

«La prima notte in trincea, D’Aquila ha in mano un fucile e deve sparare al nemico ma gli viene in mente la massima biblica “chi di spada ferisce di spada perisce” e decide di puntare alle stelle. La guerra per lui, infatti, è, in maniera evidente, antievangelica. Ne è convinto a tal punto che per “ristabilire” una lettura più fedele del messaggio cristiano, decide di “farsi” profeta e, come un novello San Francesco, si spoglia della divisa per indossare non il saio ma il camice di un manicomio e lì inizia a fare “apostolato” parlando di fratellanza. Il fil rouge che attraversa tutta la narrazione è ben rappresentato dalle poche righe tratte dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi che l’autore inserisce all’inizio del libro: D’Aquila si sente uno dei “deboli” e degli “stolti” ai quali Dio ha riservato il privilegio di poter indicare la strada della verità al mondo».

Il libro di D’Aquila è un viaggio nell’Italia del tempo. Il protagonista racconta anche la Sicilia.

«D’Aquila passa più volte da Palermo, sua città natale, e anche da Messina, la città che solo pochi anni prima, nel 1908, era stata distrutta dal terremoto e che lo colpisce per la sua “cadente bellezza”. Notevole è la descrizione della “campagna siciliana” che agli occhi di chi, come lui, “era cresciuto nel complicato ambiente di una caotica metropoli americana”, appariva in tutto il suo piacevole contrasto. Il tema della Sicilia accompagna, del resto, tutto il racconto: l’isola rappresenta il rifugio sicuro verso cui tornare, la terra d’oro da vagheggiare in cui il tempo sembra essersi fermato e i cui abitanti che, con il loro essere “gente alla buona e fuori dal mondo nei modi, primitiva nell’abbigliamento o nelle idee” sfidavano “i risultati fin qui raggiunti dalla nostra moderna e materialista civiltà che, come tentativo di esprimere se stessa, si era ridotta alla più devastante delle guerre, a una spietata distruzione e a un empio odio”».

Alla fine, citando i suoi superiori, stiamo parlando della storia di un pazzo o di un profeta?

«D’Aquila vuole che sia il lettore stesso a giudicare. Agli occhi dell’autorità medica, fu, in prima battuta, considerato “pericoloso per sé e per gli altri” e fu internato in due manicomi, prima a Udine e poi a Siena. Nella cartella clinica (pubblicata in parte in appendice) leggiamo le annotazioni dei medici sulla sua salute e anche tre lettere, scritte di suo pugno nell’aprile 1916. Gli psichiatri parlarono di “attività delirante a contenuto assurdo con prevalenti idee di grandezza”. Non sappiamo se D’Aquila manifestò mai davvero apertamente di fronte ai superiori la sua vena pacifista. Certo è che, una volta che fu dichiarato “guarito”, non fu rimandato al fronte, e ciò è un indizio a credere che forse temevano potesse “contagiare” altri e non ne volevano di certo fare un “martire”. In fondo, lo avevano preso sul serio…».

Un pacifista in trincea, una storia che si nutre del passato ma che risulta di una realtà inquietante… Esiste o può esistere ancora il pacifismo?

«C’è un passaggio del libro in cui Vincenzo – che, ricordiamolo, era partito volontario per la guerra ma ne era rimasto disgustato – dice che “fintanto che la natura umana non cambierà e gli uomini non la smetteranno di combattersi tra loro per migliorare le proprie condizioni di vita, le guerre non cesseranno di esistere” e un altro in cui, prevedendo (ma non era il solo) che un’altra guerra era “dietro l’angolo”, afferma che “una sollevazione pubblica, simile a un terremoto, dovrebbe spingere i principali governi del mondo ad attuare misure pratiche per tenere al guinzaglio i piantagrane e assicurare la pace universale”. Quando scrive, proietta sul presente ciò che aveva vissuto quindici anni prima. Il suo monito a fermare il vociare d’odio e l’egoismo dei nazionalismi è però tristemente ancora valido».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA