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Referendum, stravince il No. Renzi: «L’esperienza del mio governo finisce qui»

Di Carmela Marino |

Roma – In prima persona si è buttato nella campagna referendaria, su di se si assume tutta le responsabilità della debacle. «Ho perso io, volevo tagliare le poltrone del Senato, è saltata la mia sedia», riconosce Matteo Renzi, provando a sdrammatizzare ma in realtà tradendo nel rossore degli occhi e nella voce quasi commossa, parlando da Palazzo Chigi con al fianco la moglie Agnese, il peso di una sconfitta che nessuno, nè al governo nè al Pd, aveva immaginato.

Il più giovane premier lascia la guida di un governo durato mille giorni ma non il Pd. Martedì riunirà la direzione e da lì si cercherà di capire la strada da prendere. In molti gli chiedono di restare ma Renzi stasera è apparso inamovibile: “Come era evidente e scontato dal primo giorno la mia esperienza finisce qui, volevamo vincere e non partecipare», dice rivendicando la coerenza del rottamatore e la distanza dalla vecchia politica dove nessuno si dimette. Una distanza dai suoi predecessori che assicura di dimostrare anche quando avverrà il passaggio della campanella con il suo successore.

«Con amicizia e con un abbraccio consegnerò la campanella ed i dossier su che cosa fare», assicura alludendo a quel gelido passaggio di consegne con Enrico Letta che da sempre l’ex sindaco di Firenze si è sentito addosso come un marchio di infamia. Dopo aver votato in mattinata a Pontassieve, Renzi è rientrato a Roma nel pomeriggio quando dagli exit polls si era capito che più che una sconfitta il governo avrebbe subito una batosta. Con la moglie, il portavoce e pochissimi fedelissimi ha preferito aspettare i dati a Palazzo Chigi e non al Nazareno, dove erano riuniti i ministri più stretti, come Maria Elena Boschi e Dario Franceschini, e i vertici del Pd. Mentre dentro Palazzo Chigi i giornalisti stranieri parlavano di “Renxit” in attesa di salire alla Sala dei Galeoni, fuori, a pochi metri dalla sede del governo, una trentina di militanti dell’Usb hanno acceso dei fumogeni al grido di “Dimissioni, dimissioni”. Pochi minuti di tensione, subito calmati dalla polizia, mentre il leader Pd confermava nei dati reali del Viminale l’entità della perdita.

Non è la prima sconfitta per Renzi, battuto alle primarie per la premiership da Bersani nel 2012, ma sicuramente questa è la più dura. «C’è rabbia, delusione, amarezza, tristezza», elenca il giovane leader che rivolgendosi a volontari e militanti, con parole quasi da congedo definitivo, assicura: «Tornerete a festeggiare una vittoria». Se lui ci sarà ancora, è presto per dirlo: per ora Renzi alza bandiera bianca, teso ma sforzandosi in undici minuti di discorso di sorridere.

Da domani sarà dunque il presidente della Repubblica, considerato anche dall’opposizione un garante affidabile, a gestire la partita del “dopo”. A lui gli esponenti del centrodestra e i Cinque stelle hanno già fatto pervenire, attraverso le dichiarazioni alla stampa, l’auspicio di elezioni anticipate, magari dopo un breve periodo per fare la legge elettorale. Ma è ancora il Pd a detenere il gruppo parlamentare più nutrito e resta dunque il Partito democratico, di cui Renzi resta al momento segretario, lo snodo decisivo. Stasera il leader Pd ha chiarito che davanti ad un risultato così netto tocca ai capi dell’opposizione «l’onere» di avanzare una proposta sulle modifiche all’Italicum. Parole che suonano come una sfida, davanti all’eterogeneità dei partiti di minoranza. Difficile comunque che qualsiasi intervento sarà fatto prima di fine gennaio o inizio febbraio, quando la Consulta si pronuncerà sull’Italicum.

Il capo dello Stato, d’altra parte, ha già fatto trapelare nelle scorse settimane la sua contrarietà a sciogliere le Camere, senza una legge elettorale omogenea per Camera e Senato. Il primo problema che si pone, però, superato lo scoglio della manovra, è quale governo possa traghettare il Paese verso le elezioni, che a questo punto potrebbero avvenire non alla scadenza della legislatura nel 2018, ma già nella primavera 2017. Davanti all’inamovibilità di Renzi, Mattarella non potrà che aprire le consultazioni con i gruppi parlamentari ed individuare un presidente del Consiglio che abbia la maggior condivisione possibile. Presto per fare i nomi, ma le figure che vengono accreditate nei rumors sono il ministro Pier Carlo Padoan, che farebbe anche da garante per i mercati e per il nodo delle banche. Oppure una figura più politica, come Dario Franceschini, che ha un nutrito drappello di parlamentari Pd. L’alternativa è un governo “del presidente”, guidato da una figura istituzionale come il presidente del Senato Pietro Grasso.

Uno snodo importante per capire con quale proposta il Pd si presenterà al Quirinale è la riunione della direzione del Pd, convocata per martedì. Sarà quello il momento per capire come cambieranno gli equilibri interni al partito dopo la sconfitta referendaria. «La colpa è la sua», diceva più di un dirigente stasera al Nazareno. «Ora non potrà più decidere da solo», è la tesi non solo della minoranza Dem, che rivendica di aver rappresentato con il No una quota di elettori Pd, ma anche degli esponenti della maggioranza non di stretta fede renziana. Stasera, secondo quanto si apprende, l’orientamento di Renzi non sarebbe di lasciare la guida del partito. Anzi, i suoi già spingono perché si ricandidi al congresso, che sarà convocato forse nella direzione di martedì, per poi presentarsi alle elezioni politiche. Ma le percentuali della sconfitta, che registrerebbe picchi tra i giovani e al Sud, osserva più d’uno, “ammaccano” anche l’appeal del leader rottamatore.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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