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Caltanissetta archivia “Montantopoli”: ora attesa per la “sentenza” del ballottaggio

Di Mario Barresi |

Caltanissetta – Fu capitale nazionale dell’antimafia, omaggiata da ministri e pezzi grossissimi dello Stato. Zona franca della legalità, rampa di lancio della rivoluzione col gessato e la brillantina. E oggi, quando il buio stenta a calare, viene marchiata dai tg della sera come “Montantopoli, peggio di Gotham City, in cui proliferavano corrotti e corruttori, con le ombre di mafia tutt’altro che scacciate.

È surreale, questo interminabile venerdì d’attesa a Caltanissetta. Una città sospesa fra due verdetti.

Il primo, quello giudiziario, si materializza alle 21 con una pena pesantissima. Che è anche una condanna, seppur ancora di primo grado, a un pezzo di storia e a una parte della città. Nonostante la corsa disperata a scrollarsi di dosso amicizie e convenienze, da parte un po’ di tutti, qui – fino al momento dell’arresto, ma anche dopo l’emersione dell’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa – Antonello Montante è stato un dominus tutt’altro che invisibile. Il secondo riguarda il futuro prossimo. È il giorno di chiusura della campagna elettorale per il ballottaggio. I due sfidanti si affrontano per l’ultima volta in piazza: per il grillino Roberto Gambino (19,92% al primo turno) viene a comiziare pure il vicepremier Luigi Di Maio. A chiudere è Michele Giarratana, la “gazzella” di centrodestra che prova a mantenere il vantaggio accumulato con il 37,39%.

Si aspetta. Di sapere «quanto gli daranno a Montante», con il sadico retrogusto di piacere riservato ai potenti caduti in disgrazia. Ma soprattutto si aspetta di sapere chi sarà il prossimo sindaco. Con gli ultimi schizzi di fango di una contesa spesso sopra le righe. I grillini puntano al ribaltone e confidano nell’effetto deterrente che le ultime parole rivolte dallo sfidante nei loro confronti («ubriachi e morti di fame»), ma nella squadra dell’ingegnere scelto dal centrodestra si ostenta sicurezza. Derubricando come ininfluente l’“aiutino” che qui la Lega – fuori gioco dal 28 aprile col candidato Oscar Aiello – sta dando, «pur senza fare accordi» a Gambino. Sulla vittoria si gioca tutto Giancarlo Cancelleri, capo carismatico dei cinquestelle siculi, che ha sperimentato, seppur senza risultati entusiasmanti, un accordo tecnico con il movimento “Più Città”, prodromo del mutamento genetico dei grillismo del «non facciamo alleanze».

Gli avversari si contano in piazza. E si misurano con l’applausometro. Quando Di Maio è sul palco un cronista gli dà la notizia: «Montante condannato a quattordici anni». E lui, serafico: «Lo so, lo so». Ci si aspetta un attacco finale al rivale Giarratana, che in campagna elettorale s’è difeso come un leone, dicendosi «vittima di azioni intimidatorie, di stalkeraggio, di infami attacchi che vengono raccolti da chi non conosce evidentemente i fatti e ne fa un uso speculativo a livello politico». Ed ecco che qui i due verdetti s’incrociano. Perché il candidato di centrodestra evoca alcuni passaggi delle carte su Montante, in cui viene citato per alcune telefonate borderline, in alcune delle quali avrebbe avvertito l’imputato della presenza di “giornalisti sospetti” a Serradifalco. «Una cosa pazzesca, perché l’unico oppositore vero per 15 anni sono stato io, pagandone in prima persona dal punto di vista lavorativo, politico e personale», replica Giarratana. Stizzito, proprio come lo stesso Cancelleri quando – nel corso dell’interrogatorio poi rivelato dalla stampa – lo stesso Montante provò, seguendo lo schema riservato ai nemici, a tirarlo in ballo per la richiesta d’aiuto che il pentastellato portò sul tavolo della Camera di Commercio per salvare l’azienda del suo ex datore di lavoro, Salvatore Lo Cascio. «Tutte menzogne», disse Cancelleri annunciando querele.

Ma in fondo sono tutte suggestioni. O meglio: schermaglie ininfluenti, nel chiacchiericcio prima della domenica di ballottaggio. Perché poi il vero termometro per misurare quanto ancora sia potente l’ex più potente di Sicilia è il silenzio. Non è stato un tema della campagna elettorale, non c’è stata una vera autocritica da parte di interi pezzi della classe dirigente nissena. Troppo impegnati a nascondere scheletri negli armadi, per avere il tempo di dire: «Ecco dove abbiamo sbagliato».

E fa una certa impressione che – in questo venerdì unico e irripetibile – in città si piangano, da mattina a notte inoltrata, grandi uomini. Stefano Gallo, cronista di razza, morto suicida; forse dopo aver capito – lui, che faceva a testa alta lo stesso mestiere di tanti altri che non escono bene dalle carte su Montante – che la silenziosa dignità non è purtroppo un reddito di cittadinanza. Poi a tarda sera anche Lillo Granata, decano della nostra redazione, 86 anni, dopo aver scritto fino a ieri pomeriggio. In mattinata anche la notizia dell’ingiusta morte di un vero uomo di giustizia: Roberto Camilleri, 57 anni, presidente di collegio della seconda sezione del Tribunale di Catania, che a Caltanissetta lascia radici anagrafiche e montagne di stima di chi ha lavorato con lui. Anche in un palazzo di giustizia dove oggi si cerca disperatamente di depurare i pozzi avvelenati da Montante.   

E allora ci si tuffa tutti in questo stranissimo venerdì sospeso fra un passato da nascondere e un futuro da scoprire. La passeggiata lungo la Strata ’a foglia, per raggiungere i comizi. Gambino in corso Umberto, Giarratana in piazza Garibaldi. Un aperitivo, una pizza, un gelato. Tutti mischiati con tutti. Montantiani impenitenti e anti-montantiani orgogliosi, colpevolisti e innocentisti, apocalittici e integrati. E soprattutto i tantissimi disincantati: «E poi perché ce lo viene a cercare qui, Montante, visto che lui non è di Caltanissetta ma di Serradifalco», si difende il barista di viale della Regione sfoderando la geolocalizzazione provincialotta della presunta colpevolezza. Ma sì, perché alla fine se la storia talvolta non riescono a farla i vincitori, figuriamoci gli sconfitti.

Quattordici anni. Anche di più dei due lustri di durata del regno dell’antimafia degli affari. La condanna supera anche la durata del matematico contrappasso. Ma è molto meno della durata del mandato del prossimo sindaco di una città che vuole smarcarsi dall’onta di un “sistema” che l’ha penetrata in profondità. E poi, come si dice? Morto un re se ne fa un altro. Del resto, il vero Trono di spade, a Caltanissetta, non è in quella stanza di Palazzo del Carmine. Ma sta altrove. Da sempre.

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