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Le carte dell'inchiesta

La mafia catanese punta sui “colletti bianchi”: i nuovi affari dei Morabito – Rapisarda

Il core business resta la droga. Durante le indagini i carabinieri hanno sequestrato 71 chili di marijuana

Di Laura Distefano |

«Sugnu ‘Mussu i Ficurinia». Si presentava così Natale Benvenga. L’appellativo dialettale è quello del clan Laudani di Catania. Ma in realtà il paternese, finito in manette ieri assieme ad altri quindici indagati, per associazione mafiosa e una serie di altri reati fine, tra cui il controllo delle aste giudiziarie, è un esponente storico – è uscito dal carcere nel 2016 dopo aver scontato una pena per gli omicidi di Giuseppe Sciuto e Salvatore Spitaleri del 1991 e 1992 – del clan Morabito-Rapisarda, storici alleati della famiglia mafiosa etnea. Seppur mantenendosi defilato, è lui la figura più emergente del blitz Athena dei carabinieri che ieri hanno eseguito 17 misure, una è un’interdittiva emessa nei confronti dell’avvocato Gianfranco Vojvodic (approfondimento nell’articolo sotto).

Per il collaboratore di giustizia Salvatore Giarrizzo, ex reggente operativo degli amici “Scalisi” di Adrano, Benvenga è un «affiliato dei Morabito-Rapisarda con un ruolo di vertice». Certo, l’ex ergastolano avrebbe sempre occupato un gradino sotto al boss Enzo Morabito, che ieri è finito ai domiciliari con il braccialetto elettronico, semplicemente per motivi di salute che non sono compatibili con la detenzione in un istituto penitenziario. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dalle pm Tiziana Laudani e Alessandra Tasciotti, ha messo in luce quanto ancora siano forti i legami tra mafia e politica. E addirittura secondo i magistrati, Pietro Cirino, ex assessore comunale e imprenditore agrumicolo, sarebbe stato addirittura «fatto entrare da affiliato» tanto è che gli si contesta l’associazione mafiosa. Non è così per il gip Sebastiano Di Giacomo Barbagallo che in poco meno di 80 pagine di ordinanza (la richiesta dei pm è di oltre 2000 pagine) riqualifica il reato imputato a Pietro Cirino in concorso esterno.

Per il gip non vi sarebbe prova «del suo stabile inserimento nella struttura organizzativa del sodalizio mafioso» ma vi sarebbero elementi riconducibili invece a un suo «concreto, specifico, consapevole e volontario contributo». Nel suo magazzino ci sarebbero stati diversi incontri inerenti anche questioni politiche, come «l’assunzione alla Dusty di alcuni parenti degli associati». Ma quello che più preoccupava la figlia, che lo avverte «Papà ti arrestano…», era la frequentazione di Cirino con il boss Morabito. Ma questi elementi non sono stati ritenuti sufficienti e sussistenti a imputare all’ex consigliere comunale, a Benvenga, a Morabito e anche al sindaco di Paternò Nino Naso e all’assessore Turi Comis il reato di voto di scambio politico-mafioso (ne parliamo nella pagina seguente). Ma già la procura sta preparando l’appello al Riesame su questo specifico capo d’imputazione. Va detto che gli indagati totali sono 56, a fronte delle 17 ordinanze emesse dal gip.

Gli esponenti del clan gonfiavano il petto a «dichiarare la loro appartenenza». Siamo «la famiglia Morabito» sostenevano alcuni indagati mentre cercavano di imporsi con il titolare della ditta che aveva ottenuto la gestione della piscina comunale nella sostituzione delle macchinette dei distributori automatici. «Noi siamo i padroni di casa, qualsiasi problema hai lo risolviamo noialtri», dicevano con spocchia.

I Rapisarda-Morabito avrebbero potuto contare anche sulla figura di un altro imprenditore “amico”: Francesco Di Perna. Nel magazzino della sua azienda, in contrada Tre Fontane nelle campagne paternesi, sono stati documentati diversi incontri con personaggi di primissimo piano dei Laudani. E precisamente Benvenga, Morabito e Pennisi. E in qualche occasione, Di Perna sarebbe stato il tramite per organizzare anche faccia faccia con Pietro Puglisi, uomo di rango degli Assinnata (articolazione a Paternò dei Santapaola) che ieri notte è stato anche lui destinatario della misura del gip. Ma Di Perna è anche l’uomo che avrebbe avuto il ruolo di suggeritore delle aste giudiziarie su cui il clan avrebbe dovuto puntare i radar. In questo giro d’affari, che afferiva anche altre operazioni immobiliari, i Morabito-Rapisarda e gli Assinnata addirittura da rivali sarebbero stati soci.

Le aste giudiziarie

Ci sarebbe stata una sorta di «coabitazione» di interessi. Ma a proposito delle aste giudiziarie: «Il sodalizio criminale poteva contare sull’esistenza di rapporti di conoscenza con alcuni delegati alla vendita e, infatti, in un caso è stato ritenuto sussistente il supporto di un avvocato siracusano», hanno detto ieri gli investigatori nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato Salvatore Altavilla, comandante provinciale di Catania dei carabinieri, Claudio Papagno, comandante del Reparto Operativo e Rosario Frau, comandante nucleo operativo e radiomobile della Compagnia Carabinieri di Paternò. C’è da dire che l’indagine parte proprio dalla denuncia di un’imprenditore che si è presentato a Catania, nel 2019, per partecipare a un’asta e si è visto minacciare da Emanuele Salvatore Pennisi e Angelo Pennisi Spatola, a cui si era sicuramente rivolto l’aggiudicatario, per non fargli presentare alcuna offerta. «Stai attento che a casa non ti facciamo tornare. Sappiamo dove stai».

Politica e aste giudiziarie, ma il core business della mafia resta la droga. E anche in questo caso il clan paternese segue le regole del mercato. Gli indagati avrebbero gestito un importante traffico di marijuana, con una «struttura ben organizzata e delineata nella ripartizione dei singoli ruoli». Il gruppo mafioso poteva contare su basi logistiche e anche di immobile nel centro città, dove si dava appuntamento ai clienti. I canali di approvvigionamento della droga erano diversi fornitori della vicina Adrano e di Catania. Durante le indagini i carabinieri hanno sequestrato 71 chili di marijuana.

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