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i dati di arpa sicilia

A Catania il primato della provincia più cementificata

In un anno "spariti" 106 ettari di suolo, più del doppio rispetto a Palermo (48,9 ettari)

Di Carmelo Di Mauro |

Addio verde. Ormai non è altro che un ricordo. In un’epoca in cui l’ecosistema è sempre più martoriato, sono sconfortanti i dati emersi dall’ultimo rapporto del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, stilato con il contributo di Arpa Sicilia, sull’occupazione del suolo soprattutto nelle aree urbane. Dati che attestano come Catania sia la provincia più cementificata dell’Isola: sotto il Vulcano, infatti, sono stati ben 106 ettari di suolo, per essere adibiti all’edilizia. Un quarto del totale isolano, addirittura più del doppio del consumo di suolo registrato a Palermo (+48,9 ettari) e oltre il triplo di quanto “cementificato” nel Messinese (+28,3 ettari). Ciò contribuisce a posizionare la Sicilia tra le regioni più cementificate d'Italia, classificandola con i suoi +400 ettari di terreno cementificati tra il 2019 e il 2020, al settimo posto dopo Lombardia (+765 ettari), Veneto (+682), Puglia (+493), Piemonte (+439), Lazio (+431) ed Emilia Romagna (+425).  Nello specifico lo scorso anno la città di Catania ha cementificato più di 34 ettari di suolo (quasi sei volte la Villa Bellini, per intenderci), seguita da Mineo (+9 ettari), Paternò (+8,2), Castiglione di Sicilia (+7,5) e Randazzo (+5,3). Solo in questi 5 Comuni si concentra oltre la metà del suolo consumato sotto il Vulcano.  In percentuale, rispetto alla superficie comunale, il titolo di “Città del cemento” resta saldamente in mano a Gravina, dove risulta impermeabilizzato al 31 dicembre 2020 il 50,3% del territorio. Seguono Sant’Agata li Battiati con il 47,1%, Aci Bonaccorsi con il 41,7%, San Giovanni la Punta con il 41,1%, Tremestieri e Mascalucia “ex aequo” con il 37,4%, San Gregorio (34,5%), Aci Catena (32,5%), Aci Castello (32,3%) Aci Sant’Antonio (28,7%) e Catania appena fuori dalla top ten con 28,7% ettari di cemento.  I motivi? Molteplici, ma riconducibili a due macro-fenomeni: l’abbandono dei terreni da parte degli agricoltori e l’avanzamento delle aree edificate. Il primo fenomeno risulta essere il più diffuso, ma è il secondo, irreversibile, a destare le maggiori preoccupazioni. Dalla compromissione delle funzioni produttive del terreno e dell’ecosistema alle alterazioni del paesaggio, della sfera climatica e dell’assetto idraulico ed idrogeologico, gli effetti della cementificazione sono devastanti.  Un suolo in condizioni naturali fornisce al genere umano i servizi ecosistemici necessari al proprio sostentamento; allo stesso tempo è anche una risorsa fragile che viene spesso considerata con scarsa consapevolezza e ridotta attenzione nella valutazione degli effetti derivanti dalla perdita delle sue funzioni. Eppure, si tratta di una risorsa straordinaria che ci sostiene, ci nutre e ci aiuta anche a respirare, poiché in grado di assorbire Co2.  Un dato su tutti deve far riflettere: per generare soli 2,5 centimetri di suolo sono necessari oltre 500 anni. L’urgenza di tutelare questo bene prezioso appare quindi non più rimandabile.  E poi c’è il rischio idrogeologico che non va sottovalutato. Conseguenza anche delle profonde trasformazioni antropiche che si sono susseguite a partire dagli anni Sessanta.  Il geologo catanese Michele Bongiovanni evidenzia come «le problematiche connesse al rischio idraulico assumono sempre più importanza in corrispondenza dei centri abitati in quanto a seguito dell’elevato impatto degli interventi di natura antropica, le superfici edificate sono impermeabili, le poche aree a verde presenti fungono da verde ornamentale e l’infiltrazione delle acque piovane nel terreno è praticamente nulla favorendo l’innesco di processi di erosione concentrata e di alluvionamenti in occasione di piogge prolungate. Causa dei dissesti, ad esempio, che hanno interessato Valverde dal 2015 ad oggi con l’apertura di numerose voragini».  Come dichiarato dal presidente del Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente, Stefano Laporta, i dati del rapporto «confermano l’urgenza di definire al più presto un assetto normativo nazionale sul consumo di suolo, ormai non più differibile».  

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