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L'intervista

Le difficoltà della lotta alla mafia, Ardita: «I grandi pentiti in via di estinzione»

L’allarme del procuratore aggiunto di Catania: «Un boss oggi avrebbe poca convenienza a confessare i propri reati»

Di Laura Distefano |

«Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici». Giovanni Falcone parlava così del suo rapporto con i collaboratori di giustizia. ll giudice non smetteva mai di indossare la toga. Anzi la toga era la sua divisa. Falcone ha dato un metodo preciso. Un sistema investigativo che decine e decine di pm hanno seguito. I pentiti hanno permesso di aprire porte e scenari che sarebbero rimasti oscuri alla magistratura antimafia. Qualcosa però in questa forte conquista, pagata anche con la vita di uomini dello Stato (come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma la lista è infinita come ricorderemo il 21 marzo), è cambiata. Ne è fortemente cosciente il procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, che nella sua esperienza da pubblico ministero ha incontrato e interrogato decine e decine di collaboratori di giustizia.

Fenomeno esaurito

Per Ardita «il fenomeno delle grandi collaborazioni si è ormai esaurito da anni». Per l’investigatore il perché di questi passi indietro è da ricercare nel fatto che non sarebbe più «conveniente» entrare nelle file delle collaborazioni visto che alcuni benefici, tra cui misure alternative al carcere, si possono ottenere con altri strumenti processuali.

Dottore Ardita, avverte un cambiamento in tema di collaboratori di giustizia? «Possiamo dire che il fenomeno delle grandi collaborazioni con la giustizia – quelle di personaggi che stavano al vertice delle organizzazioni mafiose e squarciavano veli, consentendo di ricostruire in modo dettagliato assetti criminali consolidati – si è oramai esaurito da anni».

Ci si pente meno rispetto al passato? 

«Tranne qualche eccezione, riguardante soggetti che hanno avuto la reggenza di gruppi criminali, per il resto chiede di collaborare chi sta alla base della piramide e si trova in condizioni di grande difficoltà se non di disperazione. Le collaborazioni di qualità sono pressoché scomparse. E quelle offerte spesso non raggiungono la soglia minima per averli nel programma di protezione».

Lo strumento della collaborazione è stato fondamentale nel contrasto alle mafie. Ma vicende come quella del depistaggio Borsellino hanno alzato il livello di guardia?

«La collaborazione resta uno strumento fondamentale, perché attraverso le intercettazioni telefoniche si riesce soltanto a captare alcuni segmenti di vita criminale: in molti casi senza riuscire a ricostruire i reali equilibri; e comunque ignorando spesso quali possano essere i retroscena e le motivazioni vere di molte attività. Credo che con tutto questo non centri nulla il cosiddetto depistaggio Borsellino. Il problema non è affrontare la patologia, ma gestire quello che dovrebbe essere il fisiologico sviluppo di uno strumento investigativo. La crisi delle collaborazioni nasce dalla semplice constatazione che oggi collaborare non conviene più a nessuno: è possibile uscire dal carcere, anche avendo commesso i reati che una volta si consideravano ostativi, ottenendo vari benefici. Perché mai un capomafia dovrebbe rinnegare la propria organizzazione e correre rischi per sé e per la famiglia, se può ottenere con facilità l’aggiramento della repressione penale?».

Quali sono gli anticorpi che ha la magistratura e l’apparato investigativo per intercettare le bufale dei collaboratori?«È chiaro che il rischio di dichiarazioni depistanti da parte di un aspirante collaboratore di giustizia esiste sempre. Egli in definitiva è consapevole di avere in mano un potere: accusare qualcuno per vendetta o salvare qualcun altro per amicizia. Ecco perché è fondamentale una fase di formazione della volontà di collaborare, nel corso della quale deve essere spiegato con chiarezza all’aspirante testimone che la scelta alla quale va incontro rappresenta un percorso faticoso e difficile. Una scelta che darà i suoi frutti solo se rispetterà rigorosamente le regole di lealtà e di verità. Egli deve sapere che per queste difficoltà troverà nel pubblico ministero un sostegno; ma che se accuserà qualcuno falsamente anche di un solo fatto avrà in quel pubblico pubblico ministero il suo peggiore nemico». 

Può accadere che un collaboratore decida di parlare per la prima volta di un determinato fatto dopo tanti anni rispetto alla sua scelta di voltare le spalle alla criminalità organizzata. Davanti a questo scenario si deve fare un doppio lavoro, capire il perché non ha parlato prima e comprendere le ragioni che lo hanno spinto a farlo dopo. Penso ad esempio a Maurizio Avola per le stragi del 1992. «Esiste già una legge che impone di dire tutto ciò che si sa entro un termine di 180 giorni. Salvo che non si tratti di circostanze trascurabili o che non ci siano ragioni eccezionali che spieghino questo ritardo, tutto ciò di per sé inficia la genuinità della collaborazione e la credibilità di chi dichiara».

Secondo lei – su questo tema – in che direzione si sta andando?  

«Non c’è dubbio che si va verso l’abbandono dello strumento della collaborazione. E questo non accade certamente per il fatto che vi siano state delle situazioni patologiche. In nessuno Stato si abbandonerebbe uno strumento efficace solo perché qualcuno lo ha utilizzato male»

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