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Atenei, Sicilia addio iscritti: - 30% in 10 anni

Atenei, Sicilia addio iscritti: – 30% in 10 anni «Ecco perché uno studente su 3 fugge»

Intervista a Trigilia: «Le responsabilità? Centrali e locali VIDEO

Di Mario Barresi |

PALERMO – Una «dispersione enorme di capitale umano», anche per colpa di una «autonomia senza responsabilità». Anno 2015, fuga dall’università. In Sicilia tre giovani su 10 emigrano al Centro–Nord già al momento di iscriversi. E questo 30%, forse non a caso, coincide con la consistenza dell’“emorragia” di immatricolazioni nell’ultimo decennio. Sono i due dati più macroscopici – ma purtroppo non gli unici, né forse i più preoccupanti – del Rapporto 2015 che oggi la Fondazione Res presenta a Palermo. Lo studio curato da Gianfranco Viesti, “Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud”, è un duro atto d’accusa su basi scientifiche: l’Italia non investe sugli atenei e il sistema s’è “rimpicciolito” in termini di fondi, di iscritti, di docenti e di corsi di studio. E tutte le tendenze negative sono più marcate al Sud, con punte record in Sicilia. Dove, ad esempio, si registrano le performance peggiori per carriere studentesche (sei anni, in media, per conseguire una laurea triennale), ma anche nell’esercizio del diritto allo studio (il 38% dei destinatari di una borsa di studio la ottiene, contro il 90% al Nord). Pure l’offerta di corsi di studio e la qualità di didattica e ricerca del Mezzogiorno non escono bene dal Rapporto 2015. Tant’è che Carlo Triglia, l’ex ministro della Coesione e presidente della fondazione Res, in questa intervista parla di «politiche sbagliate del governo centrale e delle Regioni», ma aggiunge che «anche chi gestisce gli atenei dovrebbe assumersi le proprie responsabilità».  

IL VIDEO

SICILIA, MENO LAUREATI DI MUNTENIA E ZÁPADNÉ

L’INTERVISTA AL RETTORE ETNEO

Professore Trigilia, in un’università italiana sempre più “mignon”, tutti i dati sono col segno meno. Meno immatricolati, meno docenti, meno corsi, meno fondi. Al Sud, e in Sicilia in particolare, c’è un moltiplicatore negativo. Quali sono i dati più preoccupanti?

«Uno dei più significativi, a mio modo di vedere, è che la prima volta nell’ultimo decennio si registra un calo nelle immatricolazioni. Fino al 2003/04 l’accesso all’università era in crescita, poi è cominciato un calo, particolarmente intenso in Sicilia, del 30%. Lo stesso dato registra un meno 25–24% fra sud e centro, dove pesa il dato del Lazio, mentre al Nord il calo è circa dell’11%».  

Perché questa differenza? Soltanto un effetto della crisi?

«A ben guardare i dati, questo fenomeno non è nuovo. Negli ultimi anni assistiamo a una radicalizzazione, dovuta anche agli effetti della crisi, ma il fenomeno che comincia a manifestarsi col passaggio dall’università d’élite all’università di massa».  

 Quindi un effetto immediato del Sessantotto?

«Nel 1969 c’è la liberalizzazione degli accessi e un balzo delle iscrizioni in tutto il Paese. E da quel passaggio in poi, e in particolare dalla fine degli Anni 70, il Mezzogiorno, che prima aveva una percentuale di iscritti e di laureati rispetto alla popolazione non inferiore a quella del Centro–Nord e addirittura in alcuni momenti addirittura superiore, comincia a perdere terreno nei confronti del resto del Paese».

Perché accade questo?

«Perché la liberalizzazione, nelle regioni del Nord, dà maggiori opportunità a famiglie di ceto medio–basso o di classe operaia di mandare i figli all’università perché i redditi medi dei gruppi sociali meno abbienti sono comunque più elevati di quelli del Mezzogiorno. Questa tendenza si radicalizza negli ultimi anni di crisi economica: le famiglie sempre meno possono permettersi di mantenere un figlio all’università. Un’occasione persa, dunque, non solo nella formazione del capitale umano, ma anche di quello sociale».  

Nella sua introduzione parla di una «spirale» di responsabilità fra governo nazionale e governance locali. Perché?

«Perché le politiche del diritto allo studio, fatte dal centro ma anche dalle Regioni, hanno seguito un andamento inverso rispetto a quello che sarebbe stato necessario. Cioè, le risorse sono state minori al Sud e maggiori al Centro–Nord. E con le difficoltà delle finanze pubbliche abbiamo avuto addirittura un impoverimento del sostegno al diritto allo studio nel Mezzogiorno, con la beffa che il fondo integrativo nazionale varia in base a quanto mettono le singole Regioni e dunque è scattato un meccanismo perverso con dati eloquenti».  

Quali sono questi dati?

«Negli ultimi anni accademici, ad esempio, le borse di studio assegnate rispetto agli idonei sono state oltre il 90% nel Nord, circa l’89% nel Centro e il 52% nel Mezzogiorno. Nelle Isole, con un forte peso specifico della Sicilia, soltanto il 38% di chi aveva diritto a una borsa di studio l’ha avuta».  

E tutto ciò incide sulla qualità della carriera universitario.

«La durata media del tempo di conseguimento del titolo è molto più elevato al Sud e in Sicilia: per le lauree triennali siamo a 4,5 anni al Nord e circa 5,6 anni nel Mezzogiorno, con il dato dell’Isola che si aggira sui 6 anni. La percentuale di studenti fuori corso, che al Nord è del 35%, arriva al 47% nel Sud con valori ancora più alti in Sicilia. Anche gli abbandoni dopo il secondo anno sono molto consistenti. Quindi c’è una criticità ulteriore negli atenei meridionali. In parte dovuta al contesto: dalle Superiori arrivano studenti con competenze più basse, o magari a causa delle condizioni economiche sono di più gli studenti che lavorano. Però in tutto questo cominciano a incidere delle responsabilità che sono più direttamente degli atenei del Sud».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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